La definizione del cittadino (polites) nella Politica di Aristotele pone lo studioso di fronte ad un paradosso: da un lato, l’opera offre l’unica trattazione teorica della natura della cittadinanza trasmessaci dall’antichità greca e si capisce quindi come essa, sin dalla fine dell’ ’800, abbia fornito il paradigma in virtù del quale l’essenza dello statuto del polites è stata in primo luogo colta nella partecipazione al potere politico, in altre parole all’arche; dall’altro lato, conformemente al carattere di uno scritto che si configura come una raccolta composita di «indagini» (methodoi, logoi, pragmateiai) di volta in volta riprese e orientate secondo prospettive diverse, la riflessione aristotelica appare frammentata e a prima vista parziale nei suoi esiti, lontana in ogni caso dal proporre un’idea del concetto di cittadinanza che desse conto di tutte le sue molteplici dimensioni e di tutti i suoi significati nel quadro della vita relazionale di una città greca.
L’indagine ha carattere aporetico e si sviluppa attraverso un processo di esclusione e per successivi affinamenti. Aristotele dichiara di essere alla ricerca del cittadino «in senso stretto» (haplos), nel pieno senso del termine. Egli propone innanzitutto di descrivere il cittadino come colui che «non è meglio definito in senso stretto da nient’altro che dall’aver parte nella decisione e nel governo» (1275a22-23) ma, resosi conto che una simile definizione, fondata su un’interpretazione di arche come carica a tempo limitato e la cui iterazione era soggetta a restrizioni, avrebbe necessariamente escluso dalla piena cittadinanza chi era giudice nei tribunali e membro dell’assemblea – i quali di fatto in una democrazia erano invece κυριώτατοι, «avevano il massimo potere» –, è costretto a creare artificialmente la nozione di ἀόριστος ἀρχή, di «carica di governo senza limiti temporali» (1275a 30-33), poi abbandonata, per approdare infine ad una terza soluzione che, per essere più flessibile ed estensiva e includere anche le altre costituzioni, pone l’accento sulla possibilità (exousia) di esercitare la funzione deliberativa e giudiziaria più che sul suo effettivo esercizio (1275b 7-21). Il cittadino, al termine dell’analisi, viene in tal modo a essere non chi svolge tali funzioni bensì chi potenzialmente è abilitato a farlo. L’esercizio di una carica di magistrato in senso stretto rimane invece al di fuori della definizione aristotelica.
In questa sua inchiesta sull’identità del cittadino «in senso assoluto» Aristotele procede quindi, sul filo del rasoio, nel senso della ricerca di un minimo denominatore comune all’interno di una realtà fortemente differenziata quale era inevitabilmente quella delle poleis del suo tempo. Alla sua definizione egli giunge soprattutto «in negativo», mediante un processo di progressiva eliminazione dei casi dubbi o controversi: la città non è una «comunità di luogo» (κοινωνία τόπου, 1280b 30) e non può valere il criterio della residenza perché, in caso contrario, sarebbero cittadini anche i meteci e gli schiavi; non è un criterio nemmeno l’accesso ai tribunali perché altrimenti sarebbero cittadini gli stranieri che possono avvalersi di «convenzioni giudiziarie» (symbola) e, di nuovo, i meteci; non rientrano nella definizione neppure i cittadini «naturalizzati», forse perché, pur conferito mediante decreto, spesso si trattava di un diritto di cittadinanza «sulla carta», non sempre tradotto in atto dai beneficiari; sono inoltre esclusi comprensibilmente gli atimoi e i cittadini esiliati; e infine i giovani che, non avendo raggiunto la maggiore età, sono cittadini ancora in fieri e, cosa che può apparire più sorprendente, gli anziani (gerontes), ormai «declinanti» avendo superato il punto culminante della loro parabola di politai sul piano politico e, soprattutto, militare (1275a 5-22).
Nelle ricerche più recenti ci si è chiesti se la trattazione aristotelica costituisca davvero una testimonianza fondante per la definizione del cittadino nel mondo greco, o se non sia preferibile fare piuttosto affidamento su altre fonti che ci offrono un modello meno idiosincratico e incompleto e che, con la sottolineatura di altri importanti aspetti della cittadinanza, forse riflettono in maniera più attendibile i significati connessi al privilegio della politeia. E questo tanto più per il fatto che Aristotele stesso, sempre nel III libro, sostiene che «nell’uso corrente (πρὸς τὴν χρῆσιν), per la verità, definiscono cittadino chi sia figlio di genitori entrambi cittadini e non di uno soltanto» (1275b22-23), con un approccio meno esclusivo e più «aperto» al tema della cittadinanza. Vanno evidenziate le implicazioni di questi due diversi modi di intendere lo statuto del cittadino. Mentre infatti secondo la definizione aristotelica vengono ad essere politai soltanto coloro che godono pienamente dei diritti politici, e le donne risultano di conseguenza escluse dalla cittadinanza in senso proprio, l’altra definizione, mettendo in primo piano l’aspetto della discendenza, prescinde dalle distinzioni di genere e ha come conseguenza quella di includere anche le donne, non a caso politides, tra i membri a pieno titolo della comunità. Si è aperta così negli studi la possibilità, che qui non si condivide, di fondare il diritto di cittadinanza su criteri diversi da quelli della partecipazione politica e, come sostenuto da J. Blok, valorizzando l’espressione μετέχειν/μετεῖναι τῶν ἱερῶν καὶ τῶν ὁσίων, «partecipare delle cose sacre (ovvero, proprie degli dèi) e di quelle sancite dalla legge divina», di riconoscere l’elemento che definiva l’appartenenza dell’individuo alla polis nella religione e nella condivisione dei culti e del comune legame con gli dèi.
(1274b38) ἐπεὶ δὴ πόλις τῶν συγκειμένων, καθάπερ ἄλλο τι τῶν ὅλων μὲν συνεστώτων δ᾽ ἐκ πολλῶν μορίων, δῆλον ὅτι πρότερον ὁ πολίτης ζητητέος· ἡ γὰρ πόλις πολιτῶν τι πλῆθός ἐστιν. ὥστε τίνα χρὴ καλεῖν πολίτην καὶ τίς ὁ πολίτης ἐστὶ σκεπτέον. καὶ γὰρ ὁ πολίτης ἀμφισβητεῖται πολλάκις· οὐ γὰρ τὸν αὐτὸν ὁμολογοῦσι πάντες εἶναι πολίτην· ἔστι γάρ τις ὃς ἐν δημοκρατίᾳ πολίτης ὢν ἐν ὀλιγαρχίᾳ πολλάκις οὐ ἔστι πολίτης […] (1275a19) ζητοῦμεν γὰρ τὸν ἁπλῶς πολίτην καὶ μηδὲν ἔχοντα τοιοῦτον ἔγκλημα διορθώσεως δεόμενον, ἐπεὶ καὶ περὶ τῶν ἀτίμων καὶ φυγάδων ἔστι τὰ τοιαῦτα καὶ διαπορεῖν καὶ λύειν. πολίτης δ᾽ ἁπλῶς οὐδενὶ τῶν ἄλλων ὁρίζεται μᾶλλον ἢ τῷ μετέχειν κρίσεως καὶ ἀρχῆς. δ᾽ ἀρχῶν αἱ μέν εἰσι διῃρημέναι κατὰ χρόνον, ὥστ᾽ ἐνίας μὲν ὅλως δὶς τὸν αὐτὸν οὐκ ἔξεστι ἄρχειν, ἢ διὰ τινῶν ὡρισμένων χρόνων· ὁ δ᾽ ἀόριστος, οἷον ὁ δικαστὴς καὶ ἐκκλησιαστής. τάχα μὲν οὖν ἂν φαίη τις οὐδ᾽ ἄρχοντας εἶναι τοὺς τοιούτους, οὐδὲ μετέχειν διὰ ταῦτ᾽ ἀρχῆς· καίτοι γελοῖον τοὺς κυριωτάτους ἀποστερεῖν ἀρχῆς. […] (1275b17) τίς μὲν ον ἐστιν ὁ πολίτης ἐκ τούτων φανερόν· ᾧ γὰρ ἐξουσία κοινωνεῖν ἀρχῆς βουλευτικῆς ἢ κριτικῆς, πολίτην ἤδη λέγομεν εἶναι ταύτης τῆς πόλεως, πόλιν δὲ τὸ τῶν τοιούτων πλῆθος ἱκανὸν πρὸς αὐτάρκειαν ζωῆς, ὡς ἁπλῶς εἰπεῖν.
(1274b38) Siccome poi la città, al pari di qualsiasi altra totalità costituita da molte parti, è un complesso di elementi, è evidente che anzitutto si deve sottoporre a indagine il cittadino, perché la città altro non è che una moltitudine di cittadini. Di conseguenza si deve indagare chi sia lecito chiamare cittadino e chi sia il cittadino. Anche la natura del cittadino è infatti spesso oggetto di discussione, perché non tutti concordano che lo stesso individuo possa essere cittadino; c’è infatti qualcuno il quale, pur essendo cittadino in una democrazia, spesso non è cittadino in una oligarchia. […] (1275a19) In realtà siamo alla ricerca del cittadino in senso stretto e che non abbia alcuna pecca da richiedere una correzione, giacché anche sul conto delle persone che hanno perso i diritti politici e degli esiliati ci si può porre domande simili e cercare di dare loro una risposta. Il cittadino non è meglio definito in senso stretto da nient’altro che dall’aver parte nella decisione e nel governo. Delle cariche di governo le une sono limitate nel tempo, per cui ad alcune non è assolutamente possibile che lo stesso individuo abbia accesso due volte, o perlomeno non gli è possibile entro tempi definiti; altro è chi governa senza limiti temporali, come il giudice e membro dell’assemblea. […] (1275b17) Da ciò è evidente chi sia il cittadino: colui che ha la facoltà di partecipare al potere deliberativo o giudiziario, noi diciamo che è senz’altro cittadino di questa città e, per parlare in senso stretto, diciamo città quella moltitudine di individui di questo tipo che soddisfi l’autosufficienza di vita.
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