Il lessico della cittadinanza
Trovi qui una selezione di lemmi relativi al lessico della cittadinanza nelle fonti letterarie, epigrafiche e papirologiche in lingua greca.
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A
Apeleutheros (ἀπελεύθερος)
Lo schiavo liberato otteneva lo status di apeleutheros o exeleutheros (“liberto”: il primo termine sembra riferirsi ai nati in servitù, il secondo ai nati liberi). Come afferma Polluce, i liberti sono da considerare dei metaxy tra liberi e schiavi (III 83).
Le manomissioni in Grecia erano piuttosto rare. Lo schiavo poteva venire liberato con diverse procedure. La manomissione civilecomportava la pubblica dichiarazione della volontà del padrone di liberare lo schiavo, in assemblea, in tribunale, nel corso di una festa religiosa, attraverso la redazione di un documento in presenza di testimoni. La manomissione per hierodoulia era invece una forma di consacrazione alla divinità, in seguito alla quale lo schiavo si liberava dal padrone, ma restava vincolato al tempio e al servizio del dio; col tempo la manomissione sacra si trasformò in una vendita fittizia dello schiavo al dio, il cui prezzo era pagato al padrone dallo schiavo stesso che si riscattava.
Secondo alcuni, il liberto avrebbe ottenuto lo status di meteco, cioè di straniero residente. In effetti, per molti aspetti, l’apeleutheros sembra più vicino al meteco che al cittadino: entrambi stranieri, liberti e meteci erano accomunati dalla necessità di avere l’assistenza del prostates e dal pagamento di una tassa di residenza. Ma in realtà, lo status dei liberti sembra avvicinarsi piuttosto a quello dei nothoi. Una testimonianza relativa al ginnasio del Cinosarge, riservato ai nothoi (tratta dal commento di Pseudo-Nonno alla IV orazione di Gregorio Nazianzeno, § 60, pp. 126-127 Nimmo Smith = PG XXXVI, p. 1016), afferma che “gli Ateniesi chiamavano nothoi anche gli apeleutheroi”, perché questi ultimi “erano nothoi rispetto ai liberi di nascita”. Pare che nel ginnasio del Cinosarge sia i nothoi sia gli apeleutheroi venissero sottoposti ad una valutazione (krisis), i primisulla paternità, i secondi di carattere non meglio specificato e integrata da una dokimasia relativa alla manomissione. Uno degli obiettivi di questo “censimento” era forse l’utilizzazione militare, che peraltro, diversamente che per i nothoi, è relativamente ben attestata per gli affrancati. Lo svolgimento del servizio militare, nell’esercito di fanteria (oplitica o leggera) o nella marina, poteva certamente favorire una parziale integrazione del liberto.
I liberti erano tenuti a mantenere la residenza del padrone divenuto prostates, verso il quale mantenevano una serie di obblighi (che le fonti non precisano ma che possono definiti, sebbene solo indicativamente, in base alla testimonianza di Platone, nel libro XI delle Leggi, 914 e ss.). Alcuni obblighi potevano essere stabiliti nell’atto di manomissione e sono attestati dalla documentazione epigrafica: frequente nelle manomissioni è, per esempio, la clausola della paramone, che obbliga il libertoa risiedere presso il patrono per un periodo di tempo fissato o addirittura fino alla sua morte. Se il liberto non ottemperava ai suoi doveri, il padrone poteva intentargli una dike apostasiou, un processo per “abbandono” del patrono, di competenza del polemarco, in conseguenza della quale il liberto, se soccombeva, poteva ricadere in schiavitù.
La documentazione epigrafica costituita dalle phialai exeleutherikaí (oggetti in argento, del valore di cento dracme, dedicati ad Atena, che attestavano lo stato di libertà) ci informa del fatto che i liberti erano censiti con l’indicazione della residenza o oikesis (oikôn en + demo) e che le professioni dei liberti riguardavano per lo più l’ambito artigianale urbano.
- C. Bearzot, Né cittadini né stranieri: apeleutheroi e nothoi in Atene, inM.G. Angeli Bertinelli, A. Donati (a cura di), Il cittadino, lo straniero, il barbaro fra integrazione ed emarginazione nell’antichità (Atti del I Incontro Internazionale di Storia antica, Genova 20-22 maggio 2003), Roma 2005, 77-92
- M. Bertazzoli, I nothoi e la polis: il ruolo del Cinosarge, in Rendiconti dell’Istituto Lombardo 137 (2003), 211-232
- R. Zelnick-Abramovitz, Not Wholly Free. The Concept of Manumission and the Status of Manumitted Slaves in the Ancient Greek World, Leiden-Boston 2005, 248-262
[C. Bearzot]
Apodemeo (ἀποδημέω)
Il verbo apodemeo, letteralmente “essere lontano dal demos”, denota la condizione di chi si allontana dalla patria e dai concittadini. Questo termine, connotato da una significativa polisemia, può indicare sia un’assenza fisica dalla comunità di origine, sia la scelta deliberata di intraprendere un viaggio lontano dall’ambiente civico di appartenenza (demos, appunto). In tale contesto può essere opposto al verbo epidemeo, “essere presente nella comunità” o “risiedere”, riflettendo così il dualismo tra presenza e assenza dal contesto civico. Tale contrapposizione è chiaramente esemplificata in Xenoph. Cyr. 7.5.69, dove Ciro organizza delle guardie per mantenere l’ordine a Babilonia, sia in caso di sua presenza (ἐπιδημῶν) sia in caso di sua assenza (ἀποδημῶν). Il medesimo contrasto emerge, inoltre, in Thuc. 1.70.4, in un passo in cui gli Spartani sono descritti come coloro che rimangono sempre entro il proprio demos (ἐνδημοτάτους), in opposizione agli Ateniesi, definiti apodemeta. L’osservazione di Tucidide sottolinea la differenza tra due modelli opposti di mobilità: da un lato, la stabilità spartana, radicata nel mantenimento della presenza fisica all’interno del proprio territorio, dall’altro lato, l’inclinazione ateniese al viaggio e alla lontananza, sia per necessità sia per spirito di iniziativa. Il verbo apodemeo, infatti, può anche connotare una partenza finalizzata a uno scopo specifico, come il compiere una visita, l’intraprendere attività commerciali o il dedicarsi a un percorso di conoscenza. In Hdt. 3.124.2, ad esempio, è associato all’allontanamento di Policrate da casa per far visita a Orete, mentre in Lycurg. 1.57 si riferisce a viaggi intrapresi per motivi di natura economica o commerciale (κατ᾽ ἐμπορίαν ἀποδημοῦντας, variante manoscritta ἐπ᾽[ί]). L’uso del termine in Hdt. 1.29.1 richiama invece il caso di Solone, che, dopo aver promulgato le leggi ad Atene, “si allontanò dalla città” (ἀπεδήμησε) andando alla ricerca di “conoscenza” (θεωρίης). L’idea di apodemia, espressa dal sostantivo corrispondente ad apodemeo, risulta particolarmente significativa nella filosofia antica, per la quale è strettamente legata ai viaggi dei filosofi alla ricerca della sapienza. Filostrato utilizza sia apodemia (VA 1.3, 1.18, 3.16) sia apodemeo (VA 1.18, 3.33) per qualificare gli spostamenti di Apollonio di Tiana nella loro interezza (e non come una serie di viaggi isolati). In questo contesto, Socrate rappresenta una chiara eccezione tra i filosofi antichi. Secondo Diogene Laerzio (2.5.22), infatti, il filosofo ateniese non avrebbe avuto alcun bisogno di viaggiare (ἀποδημίας δὲ οὐκ ἐδεήθη), se non quando mosso da motivi militari (πλὴν εἰ μὴ στρατεύεσθαι ἔδει). Questo tratto trova riscontro anche nel Critone di Platone, da cui deriva il passo diogeniano (cfr. Cri.52b); in questo dialogo, infatti, Socrate immagina che le Leggi deridano l’idea di vivere lontano dalla patria (ἀποδεδημηκώς) in Tessaglia, paragonando tale vita a un banchetto frivolo e connotandola come una scelta priva di dignità (53e).
Gli usi di apodemeo mettono quindi in luce la versatilità del termine, che, oltre a esprimere l’idea generica di un’assenza o di un viaggio, può anche includere la specificazione dei motivi, delle destinazioni e delle finalità di tale viaggio.
- M. Leigh, From Polypragmon to Curiosus. Ancient Concepts of Curious and Meddlesome Behaviour, Oxford 2013
- H. G. Liddell – R. Scott, A Greek-English Lexicon, revised and augmented by Sir H. S. Jones. with the assistance of R. McKenzie, Oxford 1940
- S. Montiglio, Wandering in Ancient Greek Culture, Chicago – London 2005
- E. Poddighe, L’apodemia di Solone e l’inalterabilità delle sue leggi. La versione di Erodoto, Hormos 12 (2020), 290-329 < https://www.unipa.it/dipartimenti/cultureesocieta/riviste/hormos/.content/documenti/12_Elisabetta_Poddighe_Hormos_12_2020.pdf> (22/01/2025)
[E. Poddighe, M. Deriu]
Apolis (ἄπολις)
Il termine apolis, formato da polis preceduto da alfa privativo, indica genericamente una persona «senza città» assumendo sfumature semantiche piuttosto variegate. I poeti tragici lo utilizzano, ad esempio, per fare riferimento a personaggi drammaticamente condannati ad un destino di isolamento. Particolarmente emblematiche le attestazioni concernenti Filottete, abbandonato dai compagni sull’isola di Lemno a causa di una ferita infetta (Soph. Ph. 1018), Edipo, esiliato dal figlio Polinice e costretto ad una vita di povertà (Soph. OC. 1357), e Medea che, tradita da Giasone, si ritrova da sola, senza parenti, in terra straniera (Eurip. Med. 646). Erodoto lo utilizza contestualmente a phygas a proposito dello spartano Demarato (Hdt. 7.104.2), che si rifugia in Persia dopo essere stato deposto dal trono a causa degli intrighi di Cleomene I e Leotichida (Forsdyke 2005, 297). In un altro celebre passo delle Storie, il capo dei Corinzi, Adeimantos, definisce Temistocle apolis aner, sostenendo che gli Ateniesi non contino più nulla dopo l’incendio della città ad opera dei Persiani: Temistocle è considerato un uomo “senza patria” (τῷ μὴ ἐστὶ πατρίς) e “senza città” (ἀπόλι ἀνδρί) che non ha pertanto alcun diritto di parola (Hdt. 8.61.1). Il comandante ateniese, invece, che esalta il valore della città intesa come insieme di concittadini, ritiene che la sua comunità – sebbene sia momentaneamente priva di un insediamento – sia molto più potente di quella corinzia, visto che le loro duecento navi sarebbero in grado di sconfiggere qualsiasi altra polis greca. Temistocle non rifiuta il legame tra spazio e comunità civica, sottolineando che i suoi concittadini anche nella complicata situazione attuale posseggono “terra e città” (καὶ πόλις καὶ γῆ), propone però una concezione della polis differente, meno legata ai luoghi fisici (Ampolo 1996, 297-300). Anche il protagonista della Contro Eubulide di Demostene sottolinea il legame tra territorio e cittadinanza. Euxitheos, che è stato privato della cittadinanza a seguito del voto dell’assemblea dei demoti di Alimunte, verrà venduto come schiavo, qualora i giudici, dopo aver verificato la sua identità, ritengano che non abbia i requisiti necessari, cioè che i suoi genitori non siano entrambi ateniesi (si veda Arst. Ath.Pol. 42.1 a proposito dello scrutinio dei maggiorenni; per l’ephesis cfr. Poddighe, Loddo 2022). In un accorato appello finale, minaccia addirittura di togliersi la vita se non gli verrà data la possibilità di seppellire sua madre nelle tombe di famiglia e se verrà privato dei suoi familiari, preferendo morire in patria piuttosto che diventare apolis (Demosth. 57.70). In altre attestazioni di ambito forense, il vocabolo mantiene il significato piuttosto generico di ‘senza patria’ indicando colui che finisce in esilio (Antipho Orator 2.2.9), ma anche chi viene condannato per atimia (Lys. 20.35). Infine, in ambito filosofico, nelle Leggi di Platone si legge che nella città ideale, a differenza di quella reale, il cittadino che viene diseredato deve anche subire l’esilio forzato in un altro stato (Pl. Leg. 11.928E). Aristotele (Arst. Pol. 1253a 1-4), nella celebre definizione dell’uomo come zoon politikon per natura, definisce apolis chi vive isolato e dunque o è meno di un uomo o è superiore ad esso (Kuokkanen 2020, 5).
- C. Ampolo, Il sistema della polis. Elementi costitutivi e origini della città greca, in S. Settis (ed.), I Greci. Storia, cultura, arte, società, II.1: Formazione, Torino 1996, 297-342.
- S. Forsdyke, Exile, Ostracism, and Democracy. The Politics of Expulsion in Ancient Greece, Princeton 2005.
- S. Kuokkanen, Ostracism, Inner Change and the Dynamics of Reintegration in Classical Athens, Pallas 112 (2020), 67-91 <https://journals.openedition.org/pallas/21077>.
- E. Poddighe, L. Loddo, Ephesis against Eubulides (Dem. 57): Legal Arguments against the Sykophant’s Game, Dike 25 (2022), 95-150 <https://riviste.unimi.it/index.php/Dike/article/view/19927/17743>.
[G. Ingarao]
B
C
Chiliastys (χιλιαστύς)
Il termine vale “gruppo di mille”, ma, alla pari di altre suddivisioni civiche a base numerica, la cifra di mille ha carattere convenzionale e tradisce una componente non irrilevante di artificiosità. La chiliastys è attestata in diverse località del mondo greco, essendo caratteristica delle città della costa anatolica e di alcune isole prospicienti: Metimna, Eritre, Efeso, Samo, Cos, Mileto. Le origini dell’istituzione non sembrano riconducibili né a una matrice etnica, alla luce soprattutto del fatto che gruppi di mille si ritrovano in città di origine ionica, dorica ed eolica, né a un fenomeno di disseminazione a partire da un contesto originario. Debord (1984) ha suggerito che, a seguito di un generale incremento demografico, le antiche ripartizioni della cittadinanza, non del tutto adeguate rispetto alle rinnovate esigenze civiche, furono affiancate in età ellenistica da nuove suddivisioni, forse influenzate dal modello persiano della chiliarchia di stampo militare persiana (cfr. Sardis VII 1, 1), assunta con la mediazione dei Macedoni.
A Metimna, dove è attestata la forma χέλληστυς, si conoscono i nomi di 4 chiliastyes (Πρωτεῖς, Σκυρεῖς, Ἐρυθραῖοι, Φωκεῖς) a partire da decreti onorari varati dall’assemblea (koinon) di ciascuna chellestys. Il documento metimneo più antico in questo ambito, databile all’epoca del regno di Tolemeo Filopatore (t.p.q. 229 a.C.), è un decreto emanato dal koinon dei Proteis in onore di Prassikles per aver profuso ogni cura nei sacrifici comuni nel suo ruolo di presidente della chellestys (χελληστυάρχας, IG XII 2, 498, l. 6). Ad Eritre sono attestate due chiliastyes, i Chalkideis (I.Erythrai 1, 41, II sec. a.C.) e i Peproioi (I.Erythrai 1, 81, I sec. a.C.). Questi ultimi sono noti anche da una legge d’epoca classica (V-IV sec. a.C.) che stabilisce restrizioni sull’iterazione di una carica magistratuale, ma nel documento in questione i Peproioi non sono qualificati come chiliastys (I.Erythrai 1, 17; per l’idea che si sia trattato di un’associazione di carattere personale che controllava terreni paludosi vd. Jones 1987, 305; Liddel 2021, 81 n. 21). Difficile stabilire se le chiliastyes eritreesi siano state unità territoriali. Lo stesso collegamento della chiliastys dei Chalkideis con una tribù Chalkis, sulla base della menzione di un porto dei Chalkideis in I.Erythrai 151, ll. 17-18, non è sicuro ed è incauto concluderne che l’appartenenza alla chiliastys fosse determinata su base geografica o dalla residenza.
A Cos le chiliastyes compaiono in un regolamento civico per il festival di Zeus Polieus (IG XII 4, 278, metà IV secolo a.C.). Poche le informazioni sicure che si possono trarre dal documento: le chiliastyes sono coinvolte nei riti civici; gli hieropoioi e i karykes che amministrano il rito avanzano nella processione secondo la chiliastys di appartenenza; le chiliastyes devono fornire animali sacrificali adatti qualora quelli forniti dalle enatai (ἔνατα vale letteralmente “la nona parte”) non soddisfino le esigenze rituali. Incerto rimane il rapporto tra chiliastyes ed enatai: una parte della critica considera i due termini come sinonimici (Sherwin-White 1978, 160-161; Debord 1984, 205; Jones 1987, 237-238), ma l’esistenza di due nomi distinti e la considerazione che di enatai si parla solo a Cos e che la già citata lex sacra differenzia il ruolo di chiliastys ed enata rendono più probabile che si tratti di gruppi distinti, creati in momenti diversi e non perfettamente sovrapponibili (Marre 2018, 61).
A Samo, dopo l’espulsione della cleruchia ateniese, il rientro dei Sami esuli e la riorganizzazione dell’apparato amministrativo, compare nella formula di concessione della cittadinanza un riferimento alla registrazione nella chiliastys dopo la tribù e prima di hekatostys e ghenos. Benché si disponga di un numero relativamente cospicuo di decreti, solo in due casi è conservato il nome della chiliastys a cui il beneficiario della cittadinanza viene assegnato (IG XII 6, 1 24, dove si legge Εγ[…..]ν; IG XII 6, 1 56, Οἴνωπες). In aggiunta, nella lex frumentaria di Samo (IG XII 6, 1 178) le chiliastyes rivestono un ruolo centrale ed emergono quali “unità operative primarie” dell’amministrazione samia (Fantasia 1998, 224): valutano le garanzie reali e personali di quanti prendono a prestito quote di capitale destinato all’acquisto di grano pubblico (ll. 11-13); eleggono i curatori (μελεδωνοί) che amministrano il capitale (ll. 1, 16-17); rispetto all’incarico di gestire il capitale, le chiliastyes sono chiamate a rispondere direttamente nel caso in cui i mutuatari non versino gli interessi sul capitale, tanto da dover mettere in vendita le garanzie reali e corrispondere eventuali eccedenze agli eletti ἐπὶ τοῦ σίτου, pena l’esclusione dalla distribuzione granaria (ll. 64-71); la chiliastys perde il diritto alla razione di grano che le spetta anche nel caso un cui il curatore che ha eletto manchi di versare gli interessi sul capitale ai funzionari ἐπὶ τοῦ σίτου (ll. 79-81). Anche la registrazione delle distribuzioni teneva conto della suddivisione civica, giacché gli elenchi che conservavano i nominativi dei beneficiari erano ordinati per chiliastys.
Ad Efeso sono note 51 chiliastyes come suddivisioni delle 5 tribù. Engelmann (1996) ha dimostrato che il numero delle chiliastyes che componevano ciascuna tribù variava da 5 a 8 unità; una chiliastys poteva appartenere, almeno in età classica ed ellenistica, a una sola tribù. Come a Samo, le chiliastyes ricorrono nel formulario della cittadinanza in diversi decreti di naturalizzazione. In alcuni di questi documenti i sacerdoti di Artemide (Ἐσσῆνες) estraggono a sorte la chiliastys e la phyle in cui il neocittadino deve essere registrato (e.g. I.Ephesos 1433; 1447; 1451), mentre i νεωποιοί, incaricati di custodire l’Artemision, erano tenuti a pubblicare i nomi dei nuovi cittadini su una parete del tempio.
- R. Brock, Civic Subdivisions and the Citizen Community, in J. Filonik, C. Plastow, R. Zelnick-Abramovitz (eds.), Citizenship in Antiquity: Civic Communities in the Ancient Mediterranean, Abingdon – New York 2023, 226-239
- P. Debord, Chiliastys, REA 86.1, 1984, 201-211
- H. Engelmann, Phylen und Chiliastyen von Ephesos, ZPE 113, 1996, 94-100
- U. Fantasia, Distribuzioni di grano e archivi della polis: il caso di Samo, in La mémoire perdue. Recherches sur l’administration romaine. Actes des tables rondes de Rome (mai 1994 – mai 1995), Rome 1998, 205-228
- N.F. Jones, Public Organization in Ancient Greece: A Documentary Study, Philadelphia 1987
- P. Liddel, The Discourses of Identity in Hellenistic Erythrai: Institutions, Rhetoric, Honour and Reciprocity, Polis 38.1, 2021, 74-107
- S. Marre, Phylétika: divisions et subdivisions civiques en Ionie, en Carie, à Rhodes et dans les îles proches du continent de la mort d’Alexandre le Grand à l’arrivée des Romains, Diss. Université Michel de Montaigne, Bordeaux 2018
- M. Piérart, Modèles de répartition des citoyens dans les cités ioniennes, REA 8, 1985, 169-190
- S.M. Sherwin-White, Ancient Cos: An Historical Study from the Dorian Settlement to the Imperial Period, Göttingen 1978
[L. Loddo]
D
Demotes / damotas (δημότης/δαμότας)
Il termine può assumere una vasta gamma di significati. Anzitutto, in contesto strettamente ateniese, demotes designa il membro di uno dei 139 demi in cui era suddiviso il territorio dell’Attica (v. e. g. [Demosth.] 57.9; Soph. OC 78). Il termine assume il medesimo significato nel contesto di Coo, che pure era suddivisa in demi: v. e. g. IG XII.4 1.99, ll. 20, 32. Ma demotes può anche indicare più genericamente il membro dell’intera polis, dunque il cittadino: v. Tyrt. fr. 4 West, 5 (i cittadini di Sparta come organo costituzionale altro rispetto alla gherusia e ai re); Pi. N. 7, 65 (i cittadini di Egina); Eurip. Supp. 895 (in opposizione a xenos); IG VII 235, ll. 9, 15 (i cittadini di Oropo nel periodo dell’indipendenza tanto da Atene quanto da Tebe, 386-374 a. C.); SEG 39.1243, col. IV, ll. 1-2 (i cittadini di Colofone nella sfera pubblica, in opposizione agli idiotai delle ll. 5-6, intesi come i cittadini considerati singolarmente, nella sfera privata); IG XII.6 1.128, l. 21, in cui però il termine potrebbe anche indicare i cittadini meno abbienti di Samo piuttosto che genericamente tutti i titolari della cittadinanza (designati invece come politai alla linea 20). E in effetti spesso demotes si colora di un’accezione che rimanda a un contesto sociologicamente e politicamente ben connotato, indicando cioè i membri della cittadinanza in opposizione alle élite di potere (v. Hdt. 2.172.4, 17; 5.11.8; Soph. Aj. 1071; Ant. 690; Eurip. Alc. 1057; Fr. 362), e, per estensione, i poveri in opposizione ai ricchi (v. Xenoph. Mem. 1.2.59; Aen. Tact. 11.11.4; Ath. 12.26.13), o, ancora, gli esponenti delle fazioni democratiche in opposizione agli oligarchi (v. Plut. Lys. 21).
[G. Falco]
E
Engye / engyesis (ἐγγύη/ἐγγύησις)
Nell’Atene classica, i termini engye ed engyesis designavano l’atto formale e preliminare al gamos, attraverso cui il kyrios(padre, nonno o fratello) prometteva in sposa una donna posta sotto la sua tutela a un futuro marito. Questo atto, tuttavia, non era sufficiente a costituire il matrimonio, che si realizzava con l’ekdosis, ovvero la consegna effettiva della sposa alla nuova casa. Questa non coincideva necessariamente con l’engye e, generalmente, avveniva in un secondo momento. Nel contesto matrimoniale ateniese, l’engye rappresentava un passaggio obbligato – eccetto nel caso delle epikleroi, che seguivano l’iter dell’epidikasia – e costituiva il presupposto per la validità del matrimonio e, di conseguenza, per la nascita di “figli legittimi” (paides gnesioi). In questo modo, l’engye tutelava sia la continuità dell’oikos sia la trasmissione della cittadinanza, soprattutto dopo la legge di Pericle del 451/0 a.C., che ne limitava il diritto ai figli nati da genitori entrambi ateniesi. L’importanza di questo aspetto si rafforza nei tribunali del IV secolo, in cui la dimostrazione di un matrimonio regolare è richiesta per il riconoscimento della legittimità dei figli ([Demosth.] 59.16). A questo riguardo, due passi dell’orazione Contro Eubulide (Demosth. 57.41 e 54) mostrano con chiarezza la funzione probatoria dell’engyesis: Eussiteo rivendica la cittadinanza ateniese appellandosi anche al fatto che la madre fu data in sposa attraverso un’engye regolare, avvenuta alla presenza di testimoni. In Demosth. 57.41 (ἐγγυᾶται ὁ πατὴρ τὴν μητέρα τὴν ἐμὴν παρὰ τοῦ ἀδελφοῦ αὐτῆς Τιμοκράτους Μελιτέως) compare anche il verbo engyan, impiegato nella forma media per indicare l’azione del padre di accettare la sposa. Il verbo, nel suo significato di base, possiede il valore di “promettere” e “impegnarsi” (LSJ, s.v.), mentre, dal punto di vista etimologico, richiama l’atto di porgere qualcosa o di suggellare un patto con una stretta di mano, rimandando quindi a un gesto rituale interpretato da Wolff (1944) come il segnale di una “consegna” materiale. Gernet (1968), di contro, lo intendeva non come un atto di trasferimento in senso stretto, bensì come il segno di una promessa solenne fatta da un membro della famiglia (tipicamente il kyrios) per conto di un altro, indipendentemente dalla presenza fisica dell’oggetto o della persona promessa. Inoltre, la prima occorrenza del termine non è legata al contesto matrimoniale, ma sembra comunque alludere a una forma solenne di garanzia. In Od. 8.351 (δειλαί τοι δειλῶν γε καὶ ἐγγύαι ἐγγυάασθαι), Efesto rifiuta le engyai, cioè le“garanzie” o “promesse solenni”, offerte da Poseidone per Ares, sottolineando l’inutilità dei patti formulati da uomini indegni. L’uso allude già a un qualche “pegno” formale, suggellato, forse, da una stretta di mano rituale. In Erodoto (6.130), l’engye appare invece nel contesto di una promessa matrimoniale, all’interno del racconto di come Clistene, tra il 576 e il 572 a.C., promulgò un bando per dare in moglie la figlia Agariste al migliore tra i Greci. Una volta scelto il pretendente, Clistene diede Agariste in sposa a Megacle, secondo le leggi degli Ateniesi (il verbo utilizzato è engyan alla prima persona singolare). “E poiché Megacle dichiarò di accettarla,” il verbo è ancora engyan, ma nella forma media, a denotare l’azione di Megacle di ricevere la sposa, “Clistene concluse le nozze” (τῷ δὲ Ἀλκμέωνος Μεγακλέι ἐγγυῶ παῖδα τὴν ἐμὴν Ἀγαρίστην νόμοισι τοῖσι Ἀθηναίων.’ φαμένου δὲ ἐγγυᾶσθαι Μεγακλέος ἐκεκύρωτο ὁ γάμος Κλεισθένεϊ, trad. di G. Nenci). Che l’engye non bastasse da sola a costituire un matrimonio lo dimostrano casi in cui essa avveniva molti anni prima delle nozze, o non vi conduceva affatto. A questo proposito, è particolarmente significativo il caso della sorella di Demostene, promessa in sposa dal padre a Demofonte all’età di cinque anni: nonostante l’engye, non si arrivò mai alla celebrazione del matrimonio (Demosth. 27.15-17; cfr. Is. 6.22-24). Nella procedura era fondamentale la presenza di testimoni autorevoli per entrambe le famiglie coinvolte (Is. 3.18-20; Demosth. 30.21, 39.22). Essi convalidavano l’accordo e l’ammontare della dote, mentre la loro mancanza poteva invalidare l’atto o renderlo sospetto. I due passi della Contro Eubulide citati sopra (Demosth. 57.41 e 54) attestano proprio l’importanza dei testimoni nel tentativo di dimostrare la regolarità di un matrimonio. Eussiteo, infatti, chiama i propri zii ad avvalorare l’engyesis della madre, affermando che ne furono testimoni insieme ad altri individui non identificati. L’engyesis, dunque, pur non essendo registrata per iscritto, poteva fungere da prova nei tribunali, sia in controversie sulla cittadinanza (come nel caso di Eussiteo), sia in cause successorie (Demosth. 44.49, 46.18). Tutto ciò conferma che, nel diritto ateniese, il matrimonio non era anzitutto un’unione affettiva, ma un contratto finalizzato alla nascita di eredi legittimi. Attraverso l’engye, il kyrios proteggeva l’interesse giuridico e patrimoniale dell’oikos, scegliendo uno sposo di pari status e reputazione (Aeschin. 1.182-183; Demosth. 40.57, 44.49; [Demosth.] 59.65). In sintesi, l’engye non va intesa come il trasferimento effettivo della donna da un oikos a un altro (funzione propria dell’ekdosis), ma come l’impegno solenne attraverso cui si garantiva che una donna sarebbe diventata madre legittima dei figli di un determinato uomo. La sua funzione era dunque civica e riproduttiva, non relazionale: la moglie, pur generando figli per l’oikos del marito, non veniva integrata nella sua anchisteia (cioè nel gruppo di parenti legati da consanguineità, con compiti giuridici e rituali), restando, giuridicamente e simbolicamente, una sorta di xene, di “straniera”, nella casa dello sposo. Attraverso l’engye, infatti, si definivano e si proteggevano i confini della cittadinanza e dell’oikos, segnando uno dei momenti chiave del ciclo giuridico e simbolico dell’essere ateniese..
- M. Broadbent, Studies in Greek Genealogy, Leiden 1968
- P. Cox, Household Interests: Property, Marriage Strategies, and Family Dynamics in Ancient Athens, London 1998
- L. Gernet, Anthropologie de la Grèce antique, Paris 1968
- A. R. W. Harrison, The Law of Athens. The Family and Property, Oxford 1968
- W. R. Lacey, The Family in Classical Greece, London 1968
- C. Leduc, Comment la donner en mariage? La mariée en pays grec (IXe‑IVe s. av. J.‑C.), in G. Duby, M. Perrot (eds), Histoire des femmes en Occident, Paris 2002, 309-382.
- G. Nenci, Erodoto. Le storie,Libro VI, La battaglia di Maratona, Milano 1998
- S. Patterson, Marriage and the Married Woman in Athenian Law, in S. B. Pomeroy (ed.), Women’s History and Ancient History, Chapel Hill 1991, 48-72
- K. L. Phelan, A Social and Historical Commentary on Demosthenes’ Against Euboulides, Diss. National University of Ireland, Maynouth 2016
- R. Sealey, Women and Law in Classical Greece, Chapel Hill 1990
- J.-P. Vernant, Le mariage en Grèce archaïque, La Parola del Passato 28 (1973), 51-74
- R. Wolff, Marriage Law and Family Organization in Ancient Athens, Traditio 2 (1944), 44-95
[E. Poddighe – M. Deriu]
Enteles (ἐντελής)
Ιl significato del termine risulta raramente di facile comprensione. In alcuni casi, sembra rimandare in modo abbastanza certo al godimento dei pieni diritti: v. per es. SEG 46.167, l. 9, un decreto onorifico proveniente da Atene e risalente al 281 a.C. ca. in cui si fa riferimento a dei mercenari tarantini che rimpolpavano le file dei cavalieri ateniesi e che sono appunto definiti enteleis, dunque titolari di pieni diritti e probabilmente assimilati ai cittadini (alla metà del II secolo a.C. i cavalieri tarantini sono menzionati come cittadini ateniesi a pieno titolo sotto il comando di due tarantinarchoi ateniesi anch’essi: v. IG II² 958, l. 55). Sempre nel senso di «titolare di pieni diritti», ma in contesto romano, va inteso enteles in D.S. 34.2.31, dove l’aggettivo è utilizzato per qualificare degli equites. Meno chiaro è il significato con cui occorre il termine in un decreto milesio del 330 a.C. ca. (Milet I.3 136): alla linea 10 è stabilito che se un cittadino di Mileto voleva far parte del collegio dei timuchi nella città di Olbia, allora si sarebbe dovuto presentare dinanzi alla bule della città, farsi registrare e da quel momento sarebbe stato considerato enteles. La menzione dell’ateleia qualche linea sopra (l. 6) come privilegio di cui avrebbero beneficiato i Milesi che si trovassero ad Olbia impedisce di comprendere se l’aggettivo enteles si debba interpretare in termini di titolarità dei diritti (in particolare, l’eleggibilità alle cariche pubbliche) o in senso fiscale, e dunque col significato di «soggetto alla medesima tassazione dei cittadini» (così per es. Müller 2022, 337-338). Non del tutto chiaro è poi il significato di enteleia in diversi decreti onorifici provenienti dall’Acarnania e dall’Epiro (v. per es. Cabanes, L’Épire, n. 3, ll. 4-5; n. 16, l. 6; IG IX.1² 2, 209, ll. 14, 21): esso potrebbe tanto rimandare alla sfera dei diritti quanto a quella fiscale. In tutti i testi in questione, però, l’enteleia viene sempre menzionata insieme all’ateleia, il che porterebbe a pensare che per ateleia si intenda l’esenzione delle tasse che di norma gli stranieri erano tenuti a pagare, mentre enteleia potrebbe rimandare all’esazione di quelle tasse pagate regolarmente dai cittadini. Chaniotis, dal canto suo, suggerisce di interpretare enteleia come esigibilità di quelle tasse che l’ateleia non copriva, vale a dire dunque le imposte relative alle attività economiche esercitate dagli onorandi nella città che li aveva onorati (1986). Si badi però che i testi in cui compare l’onore dell’enteleia non forniscono elementi che ci consentano di comprendere se gli onorandi fossero effettivamente attivi nel commercio o se invece esercitassero altre professioni.
- P. Cabanes, L’Épire de la mort de Pyrrhos à la conquête romaine, Paris 1976
- A. Chaniotis, Ἐντέλεια. Zu Inhalt und Begriff eines Vorrechtes, ZPE 64, 1986, 159-162
- C. Müller, Migration et mémoire: Milet et ses apoikiai à l’époque hellénistique in G. R. Tsetskhladze (ed.), Ionians in the West and East, Leuven-Paris-Bristol (CT) 2022, 333-360
[G. Falco]
Entimos (ἔντιμος)
La prima occorrenza del termine in un contesto istituzionale è presente in un’iscrizione che reca il testo di una legge, risalente alla fine del VI o al primo quarto del V secolo a.C., con cui i Locresi Ipocnamidi regolavano i rapporti con gli epoikoi di Naupatto (IG IX.1² 3 718, ll. 34-35). Il termine viene utilizzato nell’ambito delle disposizioni relative alle controversie giudiziarie sorte tra Locresi Ipocnamidi ed epoikoi, in particolare a proposito della nomina del garante (prostatas). Si è tuttavia molto dibattuto tra gli studiosi circa il preciso significato che il termine potrebbe assumere in questo preciso contesto. Taluni hanno ritenuto che il termine significhi qui «in pieno possesso dei propri diritti di cittadino» (v. per es. Koerner 1993, 175: im Besitz der bürgerlichen Rechte; Nomima I, 43: parmi les citoyens joussant de leurs droits), da intendersi pertanto come aggettivo qualificante il prostatas; altri hanno suggerito di interpretarlo nel senso di «in carica» (v. Meiggs – Lewis, GHI 20: whoever are in office for the year), riferito dunque in quest’ultimo caso ai magistrati che avrebbero dovuto nominare il prostatas. Sempre nella direzione della titolarità dei diritti, ma con una ulteriore e più precisa sfumatura di significato, va l’interpretazione proposta da Gauthier (1972, 355), che intende il termine come sinonimo di ἐπίτιμος, e dunque sì come riferito ai cittadini in possesso dei propri diritti, pertanto non atimoi, ma, più specificamente, ai citoyens actifs recrutés parmi les aristoi. Quest’ultima interpretazione appare particolarmente convincente, oltre che per ragioni contestuali (non si vede perché sarebbe dovuto toccare ai magistrati nominare i garanti delle parti) e sintattiche (la proposizione relativa della quale fa parte il termine in questione non può essere soggetto dell’infinitiva che la precede), anche alla luce del carattere essenzialmente aristocratico del koinon locrese. Un possibile nesso col pieno godimento dei diritti, con particolare riferimento all’eleggibilità alle cariche pubbliche, si potrebbe cogliere anche in Pl. R. 564d, dove τὸ μὴ ἔντιμον εἶναι viene definito come τὸ ἀπελαύνεσθαι τῶν ἀρχῶν, dunque come un’interdizione dai pubblici uffici, anche se nel passo platonico in questione l’aggettivo potrebbe semplicemente intendersi come «onorato», «stimato» (cf. per es. Pl. R. 555c; Arst. Rh. 1388 B 4-5; Demosth. 3.29; Plut. Artax. 14.2.2; SEG 26.1214, l. 5). Certamente in termini di godimento dei pieni diritti va inteso entimos in due decreti di Cuma eolica, risalenti l’uno alla metà del III secolo a.C., l’altro agli inizi del II secolo a.C. (I.Kyme 4, l. 12; I.Kyme 5, l. 8: καὶ Κυμαῖον ἔμμεναι καὶ α[ὐ]τὸν καὶ ἐκγόνοις ἐντίμοις εὐθύς): in entrambi dei benefattori della città vengono insigniti della cittadinanza ed è stabilito che essi siano ἔντιμοι εὐθύς (o εὐθέως), espressione che viene esplicitata nei suoi contenuti concreti nelle linee successive, dove si fa riferimento alla serie di prerogative che gli onorandi avrebbero acquisito con la cittadinanza, come l’eleggibilità alle cariche pubbliche, il diritto di possedere terra e casa su suolo cumeo e il diritto di precedenza nelle cause da dibattere in tribunale. L’enfasi posta da entrambi i decreti sull’immediatezza del godimento dei pieni diritti a seguito del conferimento della politeia si spiega alla luce del fatto che solitamente il conferimento della cittadinanza non si accompagnava automaticamente a una concessione immediata e totale delle prerogative proprie degli altri cittadini, come dimostra anche il caso documentato da I.Ephesos 8 (86-85 a.C.), ll. 40-41, in cui, come incentivo a una piena partecipazione alla guerra mitridatica e dunque come misura straordinaria, è espressamente stabilito che coloro che erano stati registrati come neocittadini fino al momento dell’emissione del decreto (πεπολιτογράφηνται μέχρι τῶν νῦν χρόνων) dovessero essere entimoi, dunque godere dei pieni diritti.
- Ph. Gauthier, Symbola. Les étrangers et la justice dans les cités grecques, Nancy 1972
- R. Koerner, Inschriftliche Gesetzestexte der frühen griechischen Polis, Köln 1993
- R. Meiggs, D. Lewis, A selection of Greek Historical Inscriptions, Oxford 1969
- H. van Effenterre, F. Ruzé, Nomima. Recueil d’inscriptions politiques et juridiques de l’archaïsme grec, Vol. 1, Rome 1994
[G. Falco]
Epigamia (ἐπιγαμία)
Nel diritto greco epigamia fa riferimento al diritto di contrarre matrimonio legittimo con una persona di status diverso: per esempio, il diritto per un meteco di sposare una cittadina, o di un Ateniese di sposare una straniera nel contesto della legge di Pericle sulla cittadinanza. Tale diritto includeva quello di generare figli legittimi e di garantire loro la cittadinanza di pieno diritto. L’epigamia era ovviamente compresa nella concessione di cittadinanza: è il caso dei Plateesi, di cui Isocrate (Plat. 51) ricorda l’epigamia acquisita nel 427 insieme alla cittadinanza ateniese, dopo la distruzione della città. L’epigamia poteva essere concessa singolarmente a stranieri e meteci in casi eccezionali: cfr. per esempio la concessione da parte della città di Kotyrta allo spartano Arato figlio di Nicia della prossenia e di una serie di privilegi, tra cui l’epigamia (IG V 1 961, ca. 150-100 a.C.). L’epigamia poteva inoltre venire concessa a un intero corpo civico di un altro stato: Lisia (34.3) ricorda la concessione dell’epigamia agli Eubei da parte ateniese in un contesto non precisato, ma che sembra far riferimento all’esistenza di un impero ateniese ancora saldo; è possibile che la concessione vada collegata con la crescente importanza dell’Eubea per assicurare approvvigionamenti ad Atene dopo il 413. Alcuni trattati internazionali prevedevano la concessione di epigamia: cfr. il caso degli Etoli e degli Acarnani (IG IX 1² 1:3, 262 ca.) e della città cretese di Ierapidna e degli Arcadi (Chaniotis, Verträge 14, ca. 227-221 a.C.). Nell’ambito degli stati federali si discute se l’epigamia fosse sempre prevista tra gli stati membri, come sembrerebbe far pensare quanto afferma Cligene di Acanto in Senofonte (HG 5.2.19), che considera i rapporti epigamici come una conseguenza necessaria della formazione dello stato federale calcidese sotto l’egida di Olinto. Esistono tuttavia casi, come per esempio la concessione di una serie di privilegi, fra cui l’epigamia, ad un cittadino di Larissa da parte della città di Gonno (Gonnoi II 30, ca. 180-170 a.C.) che sembrano far pensare che non in tutti gli stati federali le cose andassero allo stesso modo, forse in relazione al diverso grado di integrazione delle comunità locali nella federazione.
- H. Beck, Polis und Koinon. Untersuchungen zur Geschichte und Struktur der griechischen Bundesstaaten im 4. Jahrhundert v. Chr., Stuttgart 1997
- A. Chaniotis, Die Verträge zwischen kretischen Poleis in der hellenistichen Zeit, Stuttgart 1996
- A.R.W. Harrison, The Law of Athens, I-II, Oxford 1968-1971 (trad. it. Il diritto ad Atene, Alessandria 2001)
- A. Oranges, La concessione dell’epigamia agli Eubei, in C. Bearzot, F. Landucci (eds.), Tra mare e continente: l’isola d’Eubea, Milano 2013, 173-189
- S. Saba, “Epigamia” in Hellenistic Interstate Treaties: Foreign and Family Policy, AncSoc 41 (2011) 93-108
[C. Bearzot]
Epitimos (ἐπίτιμος)
Nelle fonti attiche epitimos ricorre per designare i cittadini in pieno possesso dei propri diritti, spesso implicitamente o esplicitamente contrapposti agli atimoi (v. per es. Thuc. 5.34.2; Dem. 21.61; Aeschin. 1.160 cf. inoltre Xen. Hell. 2.2.11; [Arst.] Ath. 39.1; Plut. Sol. 19.4). Col medesimo significato ricorre in I.Ilion 25 (280 a.C. ca.), ll. 31-32, dove viene stabilito che se ad uccidere il tiranno fosse stato uno schiavo questi sarebbe divenuto epitimos e avrebbe preso parte alla πολιτεία κατὰ τὸν νόμον, formulazione che sembrerebbe indicare che qui epitimos voglia dire «nel pieno possesso dei diritti di cittadino», ma tale interpretazione non ha visto tutti gli studiosi concordi (per la discussione v. Teegarden 2014, 184 n. 18). Il riferimento al pieno godimento dei diritti politici è insito anche nel sostantivo epitima (ἐπιτιμά), che ricorre in una trentina di decreti onorifici delfici per prosseni, promulgati lungo un arco temporale che va dagli inizi del IV secolo alla metà del III secolo a.C. circa e indica proprio la concessione del pieno godimento dei diritti politici: in essi il termine si accompagna all’espressione καθάπερ Δελφοῖς (v. per es. F.Delphes III 1, 314, l. 3; F.Delphes III 4, 380, l. 11, dove, si badi, compare la forma ἐπιτιμία: Δελφοὶ ἔδωκαν…ἐπιτιμίαν καθάπερ Δελφοῖς), da cui si comprende chiaramente che l’epitima equiparasse gli onorandi ai cittadini di Delfi relativamente ai diritti (più complesso è stabilire il significato del termine quando l’epitima veniva concessa dal consiglio Anfizionico o dalla stessa città di Delfi a degli ieromnemoni anfizionici uscenti: v. Sanchez 2001, 320).
- P. Sanchez, L’amphictionie des Pyles et de Delphes. Recherches sur son rôle historique, des origines au IIe siècle de notre ère, Stuttgart 2001
- D. A. Teegarden, Death to Tyrants! Ancient Greek Democracy and the Struggle against Tyranny, Princeton 2014
[G. Falco]
Etes/(w)etas (ἔτης/(F)έτας)
Il termine può anzitutto indicare, genericamente, il membro di una comunità civica: v. Pi. fr. 52f, 10, dove il sostantivo designa i cittadini di Delfi (o di Egina) cui era destinato il peana pindarico. Inoltre, etas/etes può indicare anche il privato cittadino, che può a sua volta essere inteso in due modi: a. in opposizione a chi detiene il potere (v. Aesch. Supp. 247: etes contrapposto al poleos agos; Eurip. fr. 1014: etes in opposizione ad archos; Th. 5.79.4, in cui gli ἔται sono i cittadini di Sparta e Argo che possono trovarsi a essere giudicati come privati cittadini dalle corti di giustizia; Syll.³ 141, l. 12: etas in opposizione ad archon); b. in opposizione alla comunità civica nel complesso (v. Aesch. fr. 281a: etes vs. demos; IG IX.12 573, l. 9, dove, si badi, il sostantivo è parzialmente integrato). Di particolare rilievo è IvO 9, in cui (w)etas indica il privato cittadino che non ricopre alcuna carica magistratuale (non è dunque un telesta) e che viene considerato separatamente rispetto al popolo riunito in assemblea (e/o al corpo civico nel complesso: damos). In un documento piuttosto tardo (I-III d. C.) proveniente dalla Nubia, infine, etes occorre col significato di libero cittadino in opposizione allo schiavo (Bernand, Inscr. Métriques 167, l. 9: καὶ ἔτας καὶ δμόας).
[G. Falco]
F
G
H
Hekatostys (ἑκατοστύς)
Il termine ἑκατοστύς, che vale “gruppo di cento” o “centuria”, compare in due diversi ambiti, uno militare e uno prettamente istituzionale. Nel lessico militare l’hekatostys indica un’unità di fanteria che conta approssimativamente un centinaio di individui. Di questo genere di hekatostys parla Arriano (Anab. 7.24.4) quando descrive gli ultimi giorni di Alessandro: dopo aver ricevuto un’ambasceria sacra da Siwah in merito alla concessione del culto eroico ad Efestione, Alessandro avrebbe distribuito il vino e la carne di un sacrificio appena compiuto alle truppe, ripartite per lochoi (unità di cavalleria) e hekatostyes (Bosworth 2010; contra Sekunda 2010, il quale ritiene che hekatostys abbia sostituito lochos nell’indicare una divisione del corpo di cavalleria o ἴλη per evitare confusioni con il lochos di fanteria). Alessandro distribuì alle centurie animali da soma e cammelli anche in precedenza, in occasione del passaggio nella Gedrosia (Arr. Anab. 6.27.6).
L’hekatostys indica anche una suddivisione civica di tipo numerico attestata a Megara e nelle sue colonie (Bisanzio, Calcedone, Eraclea Pontica, Selimbria) e in ambito ionico (Samo e Lampsaco). L’unica definizione antica di hekatostys si trova in un lemma di Esichio (Ε 85 Latte, s.v. ἑκατοστύς), che prima la paragona alla chiliastys, un’altra suddivisione della polis su base numerica, poi la considera come sinonimo di syngheneia, un gruppo a carattere gentilizio. Tuttavia, rimane discusso se si debba considerare l’hekatostys un gruppo di tipo genetico. È probabile che il passo di Esichio, più che fornire informazioni attendibili sull’hekatostys, risenta delle elaborazioni teoriche sulle unità minori della polis da parte della riflessione filosofica e della ricerca antiquaria di età ellenistica.
Più utili le informazioni provenienti dalla documentazione epigrafica. In ambito megarese, l’hekatostys è menzionata in un’iscrizione che registra alcune transazioni finanziarie tra gli Epidauri e gli Elisfasioi (IG IV2 1, 42): alle ll. 18-20 la formula onomastica di uno dei testimoni della transazione, il megarese Dionisio, contiene la menzione dell’hekatostys Κυνοσουρίς. A Bisanzio, dove la documentazione risale al II secolo a.C., l’hekatostys compare nel formulario della concessione della cittadinanza; vi è prevista la possibilità per il neocittadino di iscriversi alla hekatostys che preferisce (IK Byzantion 1, 2, 3). L’hekatostys doveva essere presente anche a Eraclea Pontica, benché non abbia lasciato traccia nella documentazione epigrafica. Una riforma istituzionale, collocabile intorno al 370 a.C., avrebbe accresciuto il numero delle hekatostyes da 12 a 60 (Aen. Tatt. 11.10bis-11); non è certo se l’aumento del numero delle hekatostyes abbia modificato la natura dell’istituzione da gruppo a carattere gentilizio a unità di tipo territoriale. È possibile che le nuove hekatostyes abbiano avuto anche funzione militare.
A Samo l’hekatostys compare in 58 decreti di cittadinanza, collocabili tra il IV a.C. e il II secolo d.C. Sebbene non si abbiano molti dati a disposizione circa le funzioni dell’hekatostys, essa deve avere avuto un qualche ruolo nella registrazione dei nuovi cittadini. I decreti, infatti, mostrano che l’hekatostys fa parte del formulario che regola l’assegnazione del neopolites nelle suddivisioni civiche: phyle – chiliastys – ghenos (con cui l’hekatostys è spesso associata tanto da condividere lo stesso nome). In due occasioni è registrato il nome dell’hekatostys a cui il cittadino è stato assegnato, subito dopo la menzione del sorteggio per la registrazione del neocittadino nelle unità civiche della polis: Elandridai, IG XII 61 56, ll. 18-20; -αρνικίδαι, IG XII 61 24, ll. 27-29, 35-39 (entrambe le iscrizioni si datano dopo il 306 a.C.). Anche nella documentazione di Lampsaco emerge la necessità per il neopolites di registrarsi nell’hekatostys (IK Lampsakos 6 e 9). Notevole è, in particolare, IK Lampsakos 9, dove alle ll. 39-40 è menzionato un registro in cui i cittadini venivano iscritti sulla base della hekatostys.
- A.B. Bosworth, The Argeads and the Phalanx, in E. Carney, D. Ogden (eds.), Philip II and Alexander the Great. Father and Son, Lives and Afterlives, Oxford 2010, 91-102
- R. Brock, Civic Subdivisions and the Citizen Community, in J. Filonik, C. Plastow, R. Zelnick-Abramovitz (eds.), Citizenship in Antiquity: Civic Communities in the Ancient Mediterranean, Abingdon – New York 2023, 226-239
- F. Ferraioli, L’Hecatostys: analisi della documentazione, Tivoli 2012
- N.F. Jones, Public Organization in Ancient Greece: A Documentary Study, Philadelphia 1987
- N.V. Sekunda, The Macedonian Army, in J. Roisman, I. Worthington (eds.), A Companion to Ancient Macedonia, Chichester 2010, 446-471
[L. Loddo]
Homopoliteia (ὁμοπολιτεία)
L’unica occorrenza di questo termine, traducibile con “condivisione del diritto di cittadinanza”, si trova in un documento epigrafico che riferisce di un accordo tra le poleis di Cos e Calymna, datato al 201/200 a.C. (IG XII 4.1, 152 = Tit.Cal. XII, ll. 16 e 18). Non si tratta, in realtà, del testo recante la convenzione di homopoliteia, ma di un giuramento civico in cui i cittadini di Cos e Calymna si impegnano a rispettare, tra le altre cose, la democrazia e le leggi ancestrali di Cos e la restaurazione (apokatastasis) dell’homopoliteia. La convenzione originaria, datata variamente tra il 215 e il 205 a.C., venne abolita probabilmente per l’azione ostile di Filippo V dopo la battaglia di Lade. L’accordo di homopoliteia sancì l’incorporazione di Calymna, ridotta allo stato di demo, nel territorio di Cos, indicando un processo di assimilazione unilaterale, distinto dalla condivisione del diritto di cittadinanza o sympoliteia. Nuove liste di cittadini, risalenti a 20 anni dopo l’unificazione, possono essere messe in relazione con l’accordo di homopoliteia (cf. Tit.Cal. 88-96).
- P. Baker, Cos et Calymna, 205-200 a.C.: Esprit civique et défense nationale, Québec 1991
- S. Saba, Cittadinanza e archivi nel Mediterraneo antico: qualche postilla esegetica, Historika 11, 2021, 83-94
- A. Sherwin-White, Ancient Cos. An Historical Study from the Dorian Settlement to the Imperial Period, Göttingen 1978
- A.V. Walser, Sympolitien und Siedlungsentwicklung, in A. Matthaei – M. Zimmermann (eds.), Stadtbilder im Hellenismus, Berlin 2009, 135-155
[L. Loddo]
I
Isoteles/isoteleia (ἰσοτελής/ἰσοτέλεια)
I termini isoteles/isoteleia (soggetto a tasse uguali/uguaglianza di tasse) indicano un privilegio che uno Stato greco (per es. Tanagra, Beozia: IG VII 517; Priene: I.Priene 5), inclusi gli Stati federali (ad es. il koinon dei Beoti: IG VII 2861, IThesp. 29, etc.), poteva concedere ai non cittadini e che consentiva loro di sottoporsi a oneri tributari identici a quelli dei cittadini. In alcuni casi l’isoteleia veniva concessa insieme alla cittadinanza per sottolineare la completa uguaglianza del beneficiario con i cittadini (per es. a Lamia, Tessaglia: IG IX 2, 69; Mesambria, Tracia: IGBulg I² 309; Opunto, Locride: IG IX 1, 276; Andro: IG XII Suppl. 245; Calimno: IG XII 4, 5.3948; Calcedonia: I.Kalchedon 4). Le fonti lessicografiche definiscono l’isoteles come un meteco privilegiato che gode di parità fiscale con i cittadini (Hsch. s.v. ἰσοτελεῖς; Bekker, Anecd. Gr. 1. 267. 1, ἰσοτελεῖς), talora con la specificazione che si tratta in tale circostanza di un caso di meteco ‘meritevole’ (axios) (Harpocr. e Phot. s.v. ἰσοτελής καὶ ἰσοτέλεια). Ad Atene gli isoteleis erano esenti dal metoikion, una tassa diretta sulla persona che gravava sugli stranieri residenti. Dalle testimonianze a nostra disposizione non risulta del tutto chiaro se la concessione di isoteleia consistesse unicamente nell’esenzione dal pagamento del metoikion o se comportasse una più sostanziale equiparazione alla condizione di cittadino, con l’eccezione dell’accesso a cariche o funzioni di comando (cfr. ad es. Moer. 199.27-28: ἰσοτελής ὁ ξένος ὁ μετέχων τῶν νόμων καὶ τῶν πραττομένων πάντων πλὴν ἀρχῆς; Sch. Demosth. 20.73.1-2: ἰσοτελεῖς μὲν λέγει τοὺς ξένους τοὺς τετυχηκότας τῆς ἴσης τιμῆς τοῖς πολίταις). Le poche attestazioni di isoteleia e isoteles nelle fonti letterarie di IV secolo (Xenoph. Hell. 2.4.25; Demosth. 20.29; 34.18; [Demosth.] 35.14; [Arst.] Ath. 58.2) non aggiungono elementi utili; solo nei Poroi di Senofonte (4.12) il termine isoteleia viene utilizzato per indicare un privilegio fiscale, purtroppo impossibile da determinare, di cui godevano ugualmente i cittadini e gli stranieri che prendevano in concessione lo sfruttamento delle miniere del Laurio. In ambito ateniese il termine isoteles poteva essere associato al nome di un individuo per specificarne lo status (per es. Demosth. 34.18; IG II³ 1 1011, l. 100). Tale consuetudine risulta attestata soprattutto per via epigrafica, dagli inizi del IV secolo a.C. (SEG 18.112) sino al I secolo a.C. (per es. IG II² 7866). Il fatto che in tali casi isoteles si sostituisce, piuttosto che abbinarsi, all’indicazione dell’etnia o della cittadinanza di appartenenza, dimostra l’importanza rivestita da tali marcatori sociali per gli stranieri ad Atene. La documentazione epigrafica relativa a concessioni di isoteleia ad Atene è piuttosto scarsa ed è quasi interamente limitata al IV secolo a.C. La più antica attestazione è probabilmente il decreto di prossenia IG II² 83, l. 7-8 (ante 387/6?), in cui l’isoteleia viene assegnata in combinazione con il diritto di possedere terra e casa (enktesis ges kai oikias). L’infrequenza con la quale apparentemente l’isoteleia veniva concessa ad Atene sembrerebbe essere confermata dall’esiguo numero di isoteleis che figurano nelle iscrizioni funerarie (circa 30 in totale). La stragrande maggioranza della documentazione epigrafica relativa all’isoteleia in altre realtà del mondo greco consta di decreti di concessione della prossenia e di altri onori e privilegi ed appartiene al periodo ellenistico (ad es. Aliarto, Beozia: IG VII 2849 + SEG 44.409 – ante 168 a.C.; Larissa, Tessaglia: IG IX 2, 519 – tardo II secolo a.C.; Istiea, Eubea: IG XII 9, 1186 – 232-220 a.C.).
- R. Guicharrousse, Athènes en partage: les étrangers au sein de la cité (Ve-IIIe siècle avant notre ère), Paris 2022, 51–54, passim
- A.S. Henry, Honours and Privileges in Athenian Decrees, Hildesheim 1983, 246–249
- M.J. Osborne, Naturalization in Athens, vol. 2, Brussels 1982, 32–35
- D. Whitehead, The Ideology of the Athenian Metic, Cambridge 1977, 11–13
[I. Bultrighini]
K
Koinopoliteia (κοινοπολιτεία)
Il termine, uno hapax nelle fonti epigrafiche, compare in un’iscrizione etolica che si compone di due testi iscritti, datati alla fine del III secolo a.C.: una richiesta dei kosmoi della città cretese di (V)Axos, sotto forma di lettera, al koinon degli Etoli (Choix Delphes 120 = Syll.3 622B) e la conseguente risposta del koinon in forma di decreto (IG IX2 1 178 = Syll.3 622A). Nella lettera i kosmoi affermano di riconoscere come loro concittadino un tale Epikles, che a quell’epoca risiedeva ad Anfissa, ma il cui status doveva essere controverso, e chiedono agli Etoli di assicurarsi che lui e i suoi figli beneficino dei vantaggi derivanti dagli accordi di isopoliteia esistenti tra il koinon etolico e (V)Axos (cf. StV III 585 = Saba 45, attestante che tale accordo era in vigore). Si tratta cioè della possibilità di godere della cittadinanza federale, qui definita, forse con un neologismo, koinopoliteia.
Nelle fonti letterarie koinopoliteia ricorre unicamente negli scritti di Teodoro Metochite, erudito bizantino del XIV secolo (Semeioseis gnomikai 1.192 e 194; 22.2; 71.8; Byzantion vel Laus Constantinopolitana 35.46; 45.24), con il significato di “comunità statale” (LBG s.v. κοινοπολιτεία).
- L. Boffo – M. Faraguna, Le poleis e i loro archivi. Studi su pratiche documentarie, istituzioni e società nell’antichità greca, Trieste 2021
- Ph. Gauthier, Symbola. Les étrangers et la justice dans les cités grecques, Nancy 1972
- S. Saba, Isopoliteia in Hellenistic Times, Leiden – Boston 2020
[L. Loddo]
L
M
Metoikion (μετοίκιον)
Il metoikion (sc. telos) era una tassa di residenza versata dai meteci ad Atene (ad es. Xen. Vect. 2.1; Demosth. 57.55; Schol. Aristoph. Pax 296b; Harpocr., Phot., Suda s.v. μετοίκιον; Bekker, Anec. Gr. 1.298.27). Si trattava di un’imposta pro capite, dell’ammontare di dodici dracme all’anno per gli uomini e di sei per le donne (Harpocr., Phot., Suda s.v. μετοίκιον). Riguardo a queste ultime, le fonti lessicografiche specificano: “se la donna ha un figlio che versa la tassa, la madre ne è esente, ma se il figlio non la paga, allora se ne deve occupare la madre” (τοῦ υἱοῦ τελοῦντος ἡ μήτηρ οὐκ ἐτέλει· μὴ τελοῦντος δ’ ἐκείνου αὐτὴ τελεῖ). Da ciò si deduce che ad essere sottoposte al metoikion fossero le donne prive di un marito, e che costoro fossero esentate dal pagamento dell’imposta nel caso in cui avessero un figlio maschio adulto che agisse come loro tutore (kyrios) e che pagasse per loro. Va notato che il resto della fiscalità ad Atene era di tipo indiretto (come le tasse commerciali), mentre in tema di contribuzioni dirette constava o di prestazioni personali, come le liturgie, o di imposte straordinarie, come l’eisphora. Anche se il metoikion non sembra essere stato particolarmente gravoso dal punto di vista finanziario, imporre una tassa diretta e regolare sui meteci rappresentava comunque una potente dichiarazione del loro status subordinato. L’imposta differenziava i meteci non solo dai cittadini ateniesi, sui quali non gravava alcun tipo di tassazione diretta regolare, ma anche dagli stranieri liberi non residenti in Attica, che in base alla legge erano semplicemente visitatori. Il metoikion costituiva una delle caratteristiche distintive dello status di meteco, insieme ad altri obblighi finanziari a cui erano solitamente soggetti i meteci ad Atene, come le liturgie e le eisphorai (IG II² 141, ll. 30–36). Il mancato pagamento del metoikion poteva comportare la riduzione in schiavitù (Demosth. 25.57; Diog. 4.14; Harpocr., Phot., Suda s.v. μετοίκιον). La data di introduzione del metoikion non è menzionata nelle fonti e non può dunque essere determinata con precisione; secondo Whitehead (1977, 152–153), il metoikion potrebbe essere stato istituito negli anni della guerra del Peloponneso. Non è ugualmente noto fino a quale data l’imposta sugli stranieri residenti sia rimasta in vigore. L’attestazione più recente del termine si trova in un decreto che si data intorno al 321/0 e che garantisce ad alcuni esuli tessali una serie di privilegi tra cui appunto l’esenzione dal metoikion (IG II² 545, l. 12). La sopravvivenza della tassa almeno fino alla prima metà del III secolo è indirettamente attestata da alcuni decreti onorifici relativi a questo periodo che includono la concessione dell’isoteleia (vd. lemma). In via del tutto congetturale, Niku (2002, 51–54) ipotizza che il metoikion possa aver continuato ad esistere oltre quest’epoca, per essere infine abolito nella seconda metà del II secolo. Con un totale di undici occorrenze, la documentazione epigrafica relativa al metoikion è piuttosto limitata e quasi esclusivamente circoscritta al IV secolo (IG II² 61; 141; 245; 545; IG II³ 1 316; 470; 503; Agora XVI 51; Agora XIX P 26). Si tratta nella maggior parte dei casi di decreti onorifici, con l’eccezione di Agora XIX P 26, un documento dei poletai che registra la vendita all’asta di una casa appartenente a Meixidemos del demo di Myrrhinous che si era prestato come garante, tra gli altri, per Philistides del demo di Aixone, il quale, sotto l’arcontato di Pythodotos (343/2), aveva appunto partecipato all’appalto della riscossione del metoikion (l. 470-1: μετασχόντα τέλους μετοικίου) rimanendo però insolvente per un totale di 400 dracme. L’altra eccezione è Agora XVI 51, che riporta un frammentario accordo tra Atene e una città cretese (forse Kydonia), in cui si concede l’esenzione dal metoikion presumibilmente ai membri di tale comunità che risiedevano ad Atene “alle stesse condizioni dei cittadini di Cnosso” (l. 11-12: μετο[ικίο δὲ ἀτέλειαν (τοῖς)]-[Κυδωνιάταις(?) δίδοσ]θαι καθάπερ Κνωσ[ίοις — —]). Le testimonianze di V secolo sono due decreti, ambedue piuttosto frammentari, che probabilmente conferivano onori ad alcuni esuli, e si datano l’uno al 409/8 e l’altro intorno alla medesima data (IG I³ 106 e 107). Sebbene in entrambi i casi il termine metoikion sia stato integrato, si tratta di supposizioni del tutto plausibili. La più antica occorrenza certa di to metoikio nelle fonti epigrafiche rimane comunque un decreto onorifico frammentario per un individuo siceliota, databile ante 378/7 (IG II² 61, l. 8–12). Un metoikion, o più verosimilmente un’analoga tassa di residenza a cui le fonti ateniesi si riferiscono in tal modo, è attestato per Oropos (Lys. 31.9), Megara (Demosth. 29.3) ed Egina (Demosth. 23.211); mentre nella città ideale platonica di Magnesia, i meteci non avrebbero pagato “neppure la più piccola tassa di residenza se non la buona condotta” (μετοίκιον μηδὲ σμικρὸν τελοῦντι πλὴν τοῦ σωφρονεῖν; Plat. Leg. 9.850B). Data questa precisazione, è plausibile che una tassa imposta ai residenti stranieri esistesse anche in altre città greche.
- F. Luppa, Die ansässigen Fremden im klassischen Athen, Stuttgart 2023, passim.
- E.A. Meyer, Metics and the Athenian Phialai-Inscriptions: A Study in Athenian Epigraphy and Law, Stuttgart 2010, passim (spec. 29–30).
- M. Niku, ‘Aspects of the Taxation of Foreign Residents in Hellenistic Athens’, Arctos 36 (2002), 80–85.
- S.C. Todd, The Shape of Athenian Law, Oxford 1993, 197–198.
- M. Valente, “L’imposta del metoikion ad Atene: uno strumento per il controllo dell’immigrazione?”, Historika 11 (2021), 95–114.
- D. Whitehead, The Ideology of the Athenian Metic, Cambridge 1977, 75–77 e passim.
[I. Bultrighini]
Metoikos (μέτοικος)
Il termine indica genericamente lo straniero, l’immigrato. Dal punto di vista etimologico metoikos parrebbe riferirsi a colui che ha “cambiato oikos” (meta con acc.), quindi l’immigrato che ha lasciato la propria sede e si è trasferito in una nuova città. Un’altra possibile interpretazione vede il metoikos come qualcuno che “vive con” (meta con gen.) i membri del corpo civico presso cui si è stabilito. Alcune fonti lessicografiche e scoliastiche utilizzano metoikos come termine generico facente riferimento a popolazioni di status servile che vivevano sul territorio di una comunità civica (Paus.Gr., Phot., Suid. s.v. Κλαρόται: μέτοικοι, ὡς Μαριανδυνοὶ ἐν Ἡρακλείᾳ τῇ Ποντικῇ καὶ Εἵλωτες ἐν Λακεδαίμονι καὶ ἐν Θετταλίᾳ Πενέσται καὶ Καλλικύριοι ἐν Συρακούσαις). Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il meteco è definito come uno straniero che ha preso residenza in una città, con riferimento prevalentemente ad Atene, contesto su cui siamo maggiormente informati (Ar.Byz. fr. 38 Nauck; Harp., Phot., Suid. s.v. μετοίκιον; Ammon. s.v. ἰσοτελὴς καὶ μέτοικος; Schol. Pl. Leg. 8.850, etc.). Secondo queste fonti, il meteco si differenzia dal semplice visitatore (parepidemos) per la più estesa durata della sua permanenza, per aver stabilito la sua dimora in città e per il pagamento del metoikion, una tassa di residenza pro capite di importo fisso (vd. lemma). Lo status del metoikos viene definito come superiore a quello dello xenos ma inferiore a quello del polites (Ptol. ἰσοτελὴς καὶ μέτοικος. Cfr. Eust. Comm. Hom. Il. 10.59). Per Aristotele il meteco, pur condividendo con i cittadini il luogo di residenza, non partecipa ai tribunali e alle magistrature (κρίσεως καὶ άρχῆς) (Arst. Pol. 1275a 5-23). I meteci, oltre a non poter esercitare le archai (Demosth. 57.48) ed essere tenuti al versamento del metoikion e di altre contribuzioni (eisphora: Lys. 12.20-21; Isoc. 17.41; IG II² 141), avevano l’onere di svolgere liturgie (Lys. 12.20-21; Demosth. 20.18), erano obbligati a scegliersi un cittadino ateniese come patrono (Isoc. 8.53; Arst. Pol. 1275a 7-14; Harp. s.v. προστάτης), dovevano prestare servizio nell’esercito (Th. 2.13.7; 2.31.1-2; Xenoph. Vect. 2.2-4), non potevano essere proprietari di beni immobili (Arst. Oec. 1347a; Xenoph. Vect. 2.6; Poll. 7. 15) né prendere possesso di case e terreni posti a garanzia di un prestito (Demosth. 36.6) ed era loro concesso di partecipare solo in maniera molto limitata a rituali e sacrifici pubblici (e.g., IG I³ 82; 244). Vi erano alcune leggi che si applicavano esclusivamente ai meteci (Hyp. Ath. 29, 33; [Arst.] Ath. 57.3). Secondo alcune fonti i meteci non godevano di piena libertà di parola (Men. fr. 191 K; Zen. Paroem. 5.93.); tuttavia, l’anonimo autore della Costituzione degli Ateniesi non manca di rilevare, in polemica con il regime democratico, il fatto che la città, in ragione del ruolo indispensabile che i meteci svolgevano per l’economia e per la flotta, lasciasse loro piena libertà di espressione di fronte ai cittadini ([Xenoph.] Ath. Pol. 1.12). Allo stesso modo, benché alcune testimonianze sembrino indicare che in generale i meteci non godessero di buona reputazione (e.g., [Xenoph.] Ath. Pol. 1.10; Lys. 22.5; Aesch. 1.195; Sch. Aristoph. Ran. 418; Sch. Il. 16.59; Luc. 24.27; Eust. Comm. Hom. Il. 9.648), è indubbio che alcuni di loro, come il siracusano Cefalo, padre dell’oratore Lisia, si muovessero nei circoli più elitari della società ateniese (Lys. 12.4; Pl. R. 328b). Anche i Poroi di Senofonte riflettono il punto di vista secondo cui la presenza dei meteci costituiva una fonte di reddito indispensabile per la città e come tale andava incentivata e valorizzata (Vect. 2). Ai meteci potevano essere concessi vari privilegi, tra cui l’isoteleia (vd. lemma). Il termine metoikos compare per la prima volta, nella forma metaoikos, intorno al 500 a.C. nell’epigramma del monumento funerario di Anaxilas di Naxos dal Ceramico (IG I³ 1357, l. 3), con il significato generico di “immigrato”, che viene lodato per la sua saggezza (sophrosyne) e il suo valore (arete) (contra Ginestí Rosell 2012, 240, la quale ritiene invece che metaoikos sia da interpretare come meteco in senso tecnico). La più antica attestazione epigrafica attica dello status di meteco, inteso come uno straniero di condizione libera che risiede in maniera permanente in città, si trova probabilmente in un documento databile al 475-450 a.C. e contenente disposizioni sacrali del demo di Skambonidai (IG I³ 244, C l. 8). I metoikoi ai quali sono qui assegnate distribuzioni sacrificali parrebbero essere i residenti stranieri, anche se la situazione sociale e giuridica di questo gruppo di immigrati non può essere accertata. Al di fuori di Atene troviamo il termine, nella forma μεταϝοικέοι, in un trattato tra Chaleion e Oiantheia, due città della Locride Opunzia (IG IX 1² 3, 717, l. 6), la cui datazione si colloca all’incirca tra 475 e 450 a.C. Il testo include la norma secondo la quale i cittadini di una delle due comunità che emigrino (μεταϝοικέοι) nell’altra e vi soggiornino per più di un mese saranno soggetti al sistema giudiziario della città ospitante. Come nel caso dei metoikoi di Skambonidai, si ritiene plausibile identificare i μεταϝοικέοι di Chaleion e Oiantheia con gli stranieri residenti piuttosto che con generici “immigrati” (così anche Cataldi 1983, 65). Allo status di meteco allude forse Eschilo nelle Supplici alla fine degli anni ‘60 del V secolo (vv. 609-614). A partire dall’ultimo quarto del V secolo il termine metoikos appare con crescente ricorrenza nelle fonti epigrafiche e letterarie, per lo più con il significato di “meteco”. Le fonti letterarie si riferiscono in maniera preponderante al contesto ateniese e spaziano tra diversi generi, dalla tragedia alla commedia, alla storiografia, con una particolare frequenza di attestazioni nell’oratoria (e.g., Lys. 31.28-29; And. 1.15, 144; Aeschin. 1.195; Demosth. 24.166, 35.51). La più recente menzione dei meteci nelle fonti letterarie si trova in Ateneo (6.272c), il quale riferisce del censimento operato da Demetrio del Falero negli anni ‘10 del IV secolo. Le occorrenze epigrafiche, provenienti da varie aree del mondo greco, si datano tra il V secolo a.C. e il II-III secolo d.C. Le più antiche, come si è detto, sono di pertinenza ateniese e, in un caso, locrese. Ad Atene, oltre alle iscrizioni summenzionate, si segnalano, ad esempio, un decreto del 421/0 concernente le feste in onore di Efesto, ove i meteci sono ricordati in quanto destinatari di elargizioni sacrificali (IG I³ 82, l. 23) e un rendiconto dei poletai del 414 relativo alla vendita dei beni confiscati a coloro che furono condannati per la mutilazione delle erme e la profanazione dei Misteri, in cui è registrata la vendita di almeno sedici schiavi del metoikos Kephisodoros, ἐμ Περα[ιεῖ οἰκο͂ντος] (IG I³ 421, col. 1 l. 33). La formula “nome proprio + οἰκῶν ἐν + nome del demo di residenza”, variamente abbreviata, è utilizzata nei documenti ufficiali ateniesi per identificare i meteci (e.g., IG I³ 475, ll. 101-102; Agora XIX L6, ll. 6-7; Agora XIX P26, l. 478; I.Eleusis 177, l. 56). I meteci vengono così distinti dai cittadini, che sono invece indicati dal demotico. Al di fuori di Atene, il maggior numero di attestazioni epigrafiche del termine metoikos è relativo a Delo, Rodi e varie località dell’Asia Minore, con una concentrazione di occorrenze in epoca ellenistica (e.g., IG XI 2 106-116; ASAA 8-9 (1925-26) 322, nr. 5; 17-18 (1939-40) 156, nr. 18; I.Kaunos 38; AJP 1935, 359-372, no. I, 377-79, no. III; SEG XXXIX 1244). Tra gli esemplari più antichi figura un contratto per il sacerdozio di Zeus Megistos a Iasos, datato su base paleografica al 425-375 ca. Qui le prerogative del sacerdote provengono dai sacrifici compiuti da cittadini, meteci e stranieri (CGRN 42). Una lista di contribuzioni da Rodi risalente alla fine del II secolo a.C. conserva i nominativi di oltre venti donne, sia cittadine che straniere. La formula onomastica di queste ultime consta dell’etnico e della menzione dello status di metoikos per coloro che avessero ottenuto il diritto di stabilirsi a Rodi (SEG XLIII 526). Oltre a metoikos, sono attestati altri termini indicanti la condizione di individui di status libero che, trasferitisi dalla propria patria, risiedono in maniera permenente in un’altra polis, senza esserne cittadini, quali ad es. epoikos, pedoikos, synoikos (vd. Whitehead 1977, 4-5).
- M. Adak, Metöken als Wohltäter Athens. Untersuchungen zum sozialen Austausch zwischen ortsanssässigen Fremden und der Bürgergemeinde in klassischer und hellenistischer Zeit (ca. 500-150 v. Chr.), München 2003
- J. Blok, Citizenship in Classical Athens, Cambridge 2017, 265–275
- S. Cataldi, «Symbolai» e relazioni tra le città greche nel V secolo a.C., Pisa 1983
- M. Clerc, Les métèques athéniens: étude sur la condition légale, la situation morale et le rôle social et économique des étrangers domiciliés à Athènes, Paris 1893
- Ph. Gauthier, Symbola: les étrangers et la justice dans les cités grecques, Nancy 1972, cap. 3
- A. Ginestí Rosell, Epigrafia funerària d’estrangers a Atenes (segles VI-IV aC), Tarragona 2012
- R. Guicharrousse, Athènes en partage: les étrangers au sein de la cité (Ve-IIIe siècle avant notre ère), Paris 2022
- F. Luppa, Die ansässigen Fremden im klassischen Athen, Stuttgart 2023
- M. Niku, The Official Status of the Foreign Residents in Athens, 322-120 B.C., Helsinki 2007
- D. Whitehead, The Ideology of the Athenian Metic, Cambridge 1977
- D. Whitehead, ‘Immigrant communities in the classical polis: some principles for a synoptic treatment’, L’Antiquité Classique 53 (1984), 47-59
[I. Bultrighini]
N
Nautodikai (ναυτοδίκαι)
La magistratura ateniese dei nautodikai è menzionata in fonti frammentarie (IG I³ 41, ll. 76-77; Cratin. fr. 251 K-A; Aristoph. fr. 237 K-A; Crater. FGrHist 342 F4a) e nei lessici (Harpocr. s.v. ναυτοδίκαι; Poll 8.126). Le prime attestazioni risalgono agli anni Quaranta del V sec. a.C. ed essi sembrano inizialmente coinvolti in cause legate all’accertamento della cittadinanza (graphai xenias), almeno fino agli ultimi decenni del V sec. a.C. La magistratura era stata istituita probabilmente come conseguenza dei numerosi tentativi di ottenere fraudolentemente la cittadinanza a seguito delle restrizioni generate dall’emanazione della legge periclea del 451/0 a.C., in base alla quale soltanto i figli di genitori entrambi cittadini ateniesi avevano diritto alla cittadinanza. Le fonti insistono molto sui tempi stretti tra la citazione e l’udienza, che avveniva l’ultimo giorno del mese. Questa potrebbe essere la ragione per cui i nautodikai erano costretti a rigettare le cause senza investire il tribunale competente, meritando l’appellativo di hybristokidai («giudici insolenti»), e di fatto rendendo inutile il loro operato (Erdas 2021). Con i primi anni del IV sec. a.C. essi, infatti, mutano funzione, come dimostra la loro presenza nell’orazione lisiana Sulla proprietà di Eratone in qualità di giudici impegnati in cause riguardanti degli emporoi (Lys. 17.5; cf. Cohen 1973, 158-198; Maffi 2016). È possibile che tale funzione, confermata dalle fonti lessicografiche (Harpocr. ad loc.; Suda ν86 s.v. Ναυτοδίκαι), fosse stata attribuita ai nautodikai in virtù del fatto che molti mercanti erano stranieri. L’impossibilità di garantire processi veloci per gli emporoi è stata probabilmente la causa della dismissione del loro ufficio, avvenuta non oltre la metà del IV sec. a.C.
- E. Cohen, Ancient Athenian Maritime Courts, Princeton NJ 1973
- D. Erdas, I nautodikai. Note su una magistratura ateniese tra cause di xenia e giurisdizione sugli emporoi, Dike 24, 2021, 33-62
- A. Maffi, Riflessioni su dikai emporikai e prestito marittimo, in D. Leão, G. Thür (eds.), Symposion 2015. Vorträge zur griechischen und hellenistischen Rechtsgeschichte (Coimbra, 1‒4. September 2015), Wien 2016, 199-208
[D. Erdas]
Νοthos (νόθος)
Il termine nothos/nothe indica in greco la persona di nascita illegittima, vuoi per la nascita fuori da giuste nozze, vuoi per la mancanza di altri requisiti necessari per la legittimazione. Tali requisiti richiesti possono variare a seconda dei diversi contesti sociali: ad Atene, per esempio, occorre distinguere la condizione di nothos ex xenes e di nothos ex astês. Il nothos ex xenes era il figlio di un genitore straniero (patroxenos/metroxenos) e quindi, dopo la legge di Pericle sulla cittadinanza del 451/0, che restringeva la cittadinanza ai figli di genitori entrambi ateniesi, non più legittimabile e di conseguenza non abilitato ad accedere ai diritti di cittadino (mentre in passato illustri Ateniesi come Temistocle e Cimone, data l’abitudine degli aristocratici ateniesi di contrarre matrimonio con donne di grandi casate straniere, erano stati metroxenoi, figli di madre non ateniese). Il nothos ex astês, invece, era tale perché nato fuori da matrimonio legittimo, ma era pur sempre figlio di una cittadina: la situazione degli appartenenti a questa categoria è di difficile inquadramento. I nothoi erano senza dubbio di status libero, ma in situazione di inferiorità rispetto al godimento dei diritti di cittadinanza. Coloro che erano nothoi perché patroxenoi o metroxenoi tendevano a mantenere la residenza in Atene, dove esisteva un ginnasio loro riservato, il Cinosarge, dedicato al nothos Eracle. A maggior ragione dovevano restare in Atene coloro che erano nothoi perché, per diversi motivi, non erano stati legittimati dal padre (per esempio, perché nati da relazioni irregolari), benché figli di donne libere ateniesi e quindi in regola con la legge sulla cittadinanza: le testimonianze su di loro sono molto scarse. Benché le posizioni della critica siano divise a questo proposito, non è escluso in realtà che i nothoi ex astês fossero legittimabili, almeno a certe condizioni: prima fra tutte quella di non pregiudicare le aspettative degli eredi legittimi, definite da una legge di Solone (Dem. 43, 51; cfr. Aristoph. Av. 1651 ss.); i casi però, dato che la legge non prevedeva il diritto all’eredità per i nothoi, dovevano essere piuttosto rari per la difficoltà di ottenere l’assenso degli eredi. In ogni caso, la posizione del nothos è quella di un metaxy, di uno che “sta in mezzo”: egli non è né cittadino né straniero. I nothoi non hanno accesso alla cittadinanza di pieno diritto, ma neppure possono essere considerati tout court stranieri o meteci, come pure è stato ipotizzato, essendo almeno parzialmente ateniesi o addirittura del tutto ateniesi: tant’è vero che, in situazioni di emergenza, ai nothoi può essere reso nuovamente accessibile lo stato di piena cittadinanza, come avvenne nel corso della guerra del Peloponneso, con la sospensione della legge di Pericle. Essi sono dunque cittadini “potenziali”, come si può dedurre da Aristotele, il quale afferma che in alcune democrazie non solo i figli legittimi o gnêsioi, ma anche i nothoi sono cittadini (Politica III, 1278 a 26 ss.; VI, 1319 b 6 ss.) e appare con ciò “ben consapevole della peculiare posizione di quanti, sebbene esclusi dall’attività politica, non sono comunque assimilabili agli stranieri perché possono in teoria essere ammessi tra i politai in caso di allargamento dei criteri di accesso alla politeia” (Gallo 2004, 225). In molti contesti non ateniesi risulta, dalla documentazione epigrafica, che i nothoi, pur essendo inferiori ai cittadini, sono collocati in posizione intermedia fra cittadini e stranieri. È significativo che i nothoi avessero accesso, come si è detto, a un ginnasio loro riservato, il Cinosarge, dove essi venivano sottoposti a una valutazione (krisis) e forse “registrati”; è possibile che l’accesso al Cinosarge procurasse loro alcune forme di integrazione, sul piano religioso ma anche, probabilmente, su quello civile e militare. Poiché il ginnasio è istituzione destinata alla formazione militare dei giovani liberi, l’accesso al Cinosarge potrebbe infatti indicare l’inserimento dei paides nothoi in una “classe” sociale specifica e la loro destinazione militare; valutazione e censimento sostituivano l’inserimento nelle liste dei demi, cui i nothoi non avevano diritto, e metteva a disposizione della città i dati relativi ad un potenziale militare integrativo. I nothoi vedevano così garantito una sorta di inserimento nella comunità e quei limitati diritti che forse spettavano loro; ma consentiva anche alla città il necessario controllo sui residenti e sulle diverse situazioni giuridiche che li caratterizzavano. I nothoi, insomma,costituiscono una categoria intermedia che induce a ritenere che la rigida contrapposizione fra cittadini e non cittadini non renda conto del carattere articolato della società ateniese. Nothoi (patroxenoi e metroxenoi), nothoi ex astes, xenoi, meteci, apeleutheroi concorrono a costituire, accanto ai politai, una realtà sociale complessa, all’interno della quale i diversi status dovevano essere distinti con maggiore accuratezza di quanto non si sia soliti fare. Non a caso Atene teneva, accanto ai registri dei cittadini redatti nei demi e nelle fratrie (peraltro sottoposti a periodici diapsephismoí), un elenco degli aventi diritto ad accedere all’assemblea (il pinax ekklesiastikos) che non doveva coincidere con il lexiarchikon grammateion demotico; custodiva, in ambito demotico, elenchi dei meteci stilati sulla base della residenza; probabilmente censiva, attraverso l’inserimento nel Cinosarge, i nothoi patroxenoi e metroxenoi.
- M. Bertazzoli, I nothoi e la polis: il ruolo del Cinosarge, RIL 137 (2003), 211-232
- M. Bertazzoli, Giuste nozze e filiazione legittima da Dracone agli oratori, Mediterraneo Antico 8 (2005), 641-686
- L. Gagliardi, Per un’interpretazione della legge di Solone in materia successoria, Dike 5 (2002), 5-59
- L. Gallo, I cittadini “passivi” nelle poleis greche, in Poleis e politeiai. Esperienze politiche, tradizioni letterarie, progetti costituzionali (Atti del Convegno, Torino 29-31 maggio 2002), Alessandria 2004, 217-227
- C. Joyce, Citizen nothoi? The cases of Phile (Isaeus 3) and the two ‘Mantitheuses’ (Dem. 39 and [Dem.] 40), Dike 28 (2025), cds.
- S.C. Humphreys, The Nothoi of Kynosarges, JHS 94 (1974), 88-95
- D. Ogden, Greek Bastardy in the Classical and Hellenistic Period, Oxford 1994
- V. Saldutti, Temistocle e i nothoi del Cinosarge. Il ginnasio tra integrazione ed esclusione, in Essere sempre il migliore. Concorsi e gare nella Napoli antica, Napoli 2022, 321-336
[C. Bearzot]
O
P
Parepidemeo/parepidemia/parepidemos (παρεπιδημέω/παρεπιδημία/παρεπίδημος)
Né il verbo né i sostantivi sono attestati nelle fonti di età classica. Le prime attestazioni sicure dei termini risalgono alla seconda metà del III secolo a. C. circa e ci sono fornite da documenti epigrafici provenienti da Calimna (IG XII.4 5 3987, ll. 3-4: πα[ρεπ]ιδαμεύντων), Pharos (SEG 41.545 fr. B, l. 9: παρεπιδημ[ῶσι), Histria (SEG 51.934, ll. 18-19: παρε[πιδημίαν), e, per quanto riguarda le fonti letterarie, da Callisseno di Rodi (FGrHist 627 F 2 = Athen. Deipn. 5.25: παρεπιδήμων) e dal commediografo Macone (frr. 15 Gow v. 232; 17 Gow v. 333: παρεπιδημήσας). L’unica definizione esplicita di cui disponiamo si deve ad Aristofane di Bisanzio (fr. 98 Nauck) che distingue il παρεπίδημος dal μέτοικος: ciascuno straniero sarebbe stato considerato un παρεπίδημος entro un mese dal proprio arrivo, dopodiché sarebbe stato considerato μέτοικος e dunque soggetto al pagamento della tassa (μετοίκιον). Il discrimine tra i due termini, e dunque tra le due condizioni, si determinerebbe solo in base alla durata del soggiorno e all’esazione fiscale, indipendentemente dal fatto che lo straniero in questione decidesse di risiedere o meno in città. Tale conclusione, sostenuta, tra gli altri, da Whitehead (1977, 8-11), è rafforzata, almeno per quanto riguarda l’Atene classica, da IG II2 141 (un decreto che, sulla base dell’identificazione della mano del lapicida e di vari dettagli formulari, è stato di recente datato con buona dose di verisimiglianza al 388/7 o poco dopo: AIUK 11, 2.2, 13-14), una delle cui clausole aggiuntive, proposta da tale Menexenos, stabilisce che i Sidoniati che si fossero recati ad Atene per affari sarebbero stati esentati dal μετοίκιον (ll. 29-36). Ciò prova che l’esazione del μετοίκιον non si applicava ai soli stranieri residenti, ma evidentemente anche a quegli stranieri che si fossero recati ad Atene per ragioni commerciali e vi avessero soggiornato per un tempo superiore a quello previsto dalla legge per determinare il confine tra semplice ξένος e, appunto, μέτοικος. In diverse fonti letterarie il participio παρεπιδημῶν occorre, in funzione attributiva, col sostantivo ξένος (Mach. Frr. 15, 17 Gow; Diod. 4.27.3; Athen. Deipn. 10.52;13.44); in alternativa, sia nelle fonti letterarie che in quelle epigrafiche, si trova il participio sostantivato accanto al genitivo partitivo τῶν ξένων (Plut. Tim. 38.2), e, in questi casi, si tratta di una categoria che nelle fonti epigrafiche occorre giustapposta da un lato a quella dei πολῖται, dall’altro alle altre categorie di non cittadini residenti, che possono essere genericamente designati come οἱ ἄλλοι τῶν κατοικούντων τὴν πόλιν (OGIS 339, ll. 29-30) o οἱ οἰκοῦντες (IG XII.7 389, ll. 14-15), oppure possono essere enumerati singolarmente. In quest’ultimo caso, tra le categorie di non cittadini possono figurare i μέτοικοι, i πάροικοι, i κάτοικοι e gli ἀπελεύθεροι (v. IG XII.7 515, ll. 72-73; IG XII.5 1 721, ll. 19-20; IK Priene 69, ll, 43-44; SEG 39.1243). Non sempre risulta agevole attribuire a questi termini un significato preciso e costante, poiché il loro uso appare specificamente determinato dal contesto cronologico e geografico (v. Papazoglou 1997, 174-177 e passim). Ciò che è importante sottolineare, tuttavia, è che da queste fonti non emerge una netta opposizione dicotomica tra παρεπιδημοῦντες e stranieri residenti, come invece presupposto nella definizione di Aristofane di Bisanzio (i πάροικοι, per esempio, specialmente nel contesto microasiatico di età ellenistica, non indicano necessariamente degli stranieri, v. lemma). Il dato che sembra potersi desumere è piuttosto quello di una opposizione tra categorie stanziali/residenti (cittadini e no) e stranieri di passaggio. Si noti inoltre che in alcune fonti i παρεπιδημοῦντες appaiono giustapposti, e dunque implicitamente contrapposti, ai soli πολῖται (IG XII.5 818, ll. 10-12; IG XII.5 864, ll. 12-13; IG XII.5 865, ll. 20-21; IG XII.9 236, ll. 40-41). Dal momento che è del tutto inconcepibile che, in una tale contrapposizione, gli stranieri residenti fossero inclusi tra i πολῖται, ne discende che l’espressione ξένοι παρεπιδημοῦντες con ogni verosimiglianza alludesse anche a loro. Un dato, questo, che trova riscontro in Poll. 3.55, ove παρεπιδημῶν occorre come sinonimo di μέτοικος, ma anche in contesto romano, come in Plb. 30.4.10; 32.6.4-6 e Diod. 1.4.3, dove παρεπιδημῶν designa lo status di straniero residente. Da un’altra iscrizione, IG XII.7 22, ll. 10-11, emerge un ulteriore elemento chiarificatore: i cittadini di Arcesine, designati con l’etnico, sono contrapposti ai soli ξένοι οἱ ἐνδημοῦντες, che paiono indicare tanto gli stranieri residenti quanto quelli di passaggio (v. Papazoglou 1997, 226-227; per un caso di equivalenza semantica di ἐνδημία e παρεπιδημία v. IG XII Suppl. 200, ll. 9, 11). Tale dato appare compatibile con l’idea che anche il soggiorno degli stranieri residenti fosse, in linea di principio, concepito come destinato a concludersi e che anche gli stranieri residenti potessero un giorno rimpatriare (v. Luppa 2023, 172-181). In altri termini, la metoikia non era affatto intesa come preclusiva di uno esprit de retour. Del resto, che nel termine παρεπιδημία fosse insita l’idea della transitorietà è dimostrato dall’uso metaforico che ne fa l’autore dell’Assioco pseudoplatonico ([Pl.] Ax. 365b: παρεπιδημία τίς ἐστιν ὁ βίος: «la vita è un soggiorno passeggero»). Si può quindi distinguere tra un uso più specifico di παρεπιδημέω/παρεπιδημία/παρεπίδημος, con cui si intende differenziare lo straniero “non inquadrato” e non residente dallo straniero inquadrato e/o residente e dai non cittadini (indigeni) residenti, e un uso più generico, che allude al soggiorno di un non nativo in una città diversa dalla propria, senza distinzioni di durata o inquadramento fiscale e amministrativo. Va però aggiunto che nemmeno l’elemento della durata è necessariamente decisivo per l’uso dei termini in questione. Non sono infatti rari i casi in cui παρεπιδημέω ricorre accompagnato da determinazioni di tempo che alludono a una durata del soggiorno piuttosto estesa (IG IX.2 11, ll. 19-20: χρόνον καὶ πλείονα; IG XI.4 789, ll. 6-7: πλείω χρόνον; IG XI.4 790, ll. 3-4: πλείω χρόνον; Syll.3 707: ἔτη πλείω; Plb. 4.4.2: πάλαι). In tutti questi casi, però, si tratta di soggiorni legati a missioni diplomatiche o militari, oppure a specifiche prestazioni professionali richieste dalla città ospitante, tutte motivazioni che potevano spesso comportare dilatazioni dei tempi di soggiorno. Il verbo παρεπιδημέω e il sostantivo παρεπιδημία ricorrono infatti spesso per alludere al soggiorno di ambasciatori (Plb. 28.19.2; Diod. 32.15.3; SEG 23.489 b1, l, 9), giudici stranieri (IK Priene 119, l. 15; IG VII 21, l. 7; IG XII Suppl. 139, ll. 74-75), θεωροί (IK Priene 72, ll. 14-15; SEG 39.1243, ll. 38-40), artisti (Diod. 5.5.1), medici (IG IX.2 11, ll. 19-20; IG V.1 1145, l. 21; IG IX.12 3 370, l. 18), guarnigioni (OGIS 139, ll. 4-5). Limitatamente a questi ultimi casi, risulta evidente la differenza tra stranieri residenti e παρεπιδημοῦντες: i primi erano coloro che per propria scelta e di propria iniziativa soggiornavano per un determinato lasso di tempo in una città o vi si trasferivano stabilmente per affari o ragioni professionali, senza essere stati sollecitati dalla città ospitante o comunque senza dover compiere una specifica missione ufficiale per conto della propria città o di terzi (v. Gauthier 1988, 37; Niku 2007, 153-174; Coskun 2014, 104). Un significato particolare assume infine il verbo παρεπιδημέω nelle iscrizioni delie risalenti al periodo in cui l’isola, dopo il 167, tornò a essere protettorato ateniese. In questi testi, infatti, il verbo παρεπιδημέω viene usato in modo piuttosto univoco per alludere al soggiorno senza residenza (di contro a κατοικέω, che indica invece la residenza stabile sull’isola), indipendentemente dallo status giuridicodegli individui o dei gruppi cui si fa riferimento. Di conseguenza, gli Ateniesi, che, in quanto cittadini della madrepatria, erano considerati titolari del diritto di cittadinanza anche sull’isola, possono essere annoverati tanto tra i κατοικοῦντες quanto tra i παρεπιδημοῦντες, esattamente come i Ῥωμαῖοι e gli altri ξένοι (v. per es. ID 1508, l. 6; ID 1645, l. 3; ID 1646, l. 4). Nel contesto della Delo protettorato ateniese, dunque, i παρεπιδημοῦντες non rappresentano una categoria che inevitabilmente si giustappone a quella di πολίτης, come altrove, ma piuttosto una categoria che può anche sovrapporsi a quella del cittadino.
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- M. Niku, The Official Status of the Foreign Residents in Athens, 322-120 B.C., Helsinki 2007
- F. Papazoglou, Laoi et paroikoi. Recherches sur les structures de la société hellénistique, Beograd 1997.
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[G. Falco]
Paroikeo/paroikos (παροικέω/πάροικος)
Il termine πάροικος assume differenti significati a seconda del contesto cronologico e geografico in cui è utilizzato, nonché della tipologia di fonte in cui occorre. Nelle fonti letterarie esso si colora per lo più di un’accezione generica e non tecnica, mediante la quale si allude alla condizione di vicinato, di un «abitare presso» (Soph. Ant. 1155; Men. Dysc. 445; Str. 1.2.24; Paus. 5.144.8; Poll. 6.113; 9.37). Nelle fonti epigrafiche, invece, esso ricorre per lo più con vari significati tecnico-giuridici atti a designare differenti categorie civiche. A lungo la dottrina ha ritenuto che πάροικος fosse l’equivalente ellenistico-romano di μέτοικος (per un’eccellente rassegna bibliografica v. Papazoglou 1997, 144-155). Una fetta più ridotta di studiosi ha invece persuasivamente dimostrato che il termine comincia ad assumere una valenza tecnico-giuridica nelle città dell’area costiera dell’Asia minore a partire dagli inizi del III secolo, designando gli indigeni (ἔθνη) di particelle di βασιλικὴ χώρα annesse alla χώρα delle poleis. Ad essi venivano riconosciuti i diritti civili, ma non i diritti politici (v. Svenstiskaja 1959, 146-153; Gauthier 1988, 23-46; Papazoglou 1997, 235-248; Bertrand 2005). Questo sembra in effetti, con ogni verosimiglianza, il significato del termine in diversi documenti nei quali compare giustapposto ad altre categorie di non cittadini che paiono già esprimere il significato di stranieri residenti (v. per es. OGIS 338, ll. 10-20, dove i ‘meteci’ sono con ogni probabilità οἱ κατοικοῦντες; IK Priene 69, ll. 38-39, 42-43: i πάροικοι sono chiaramente distinti dai κάτοικοι, che potrebbero essere appunto gli stranieri residenti). Inoltre, quando i πάροικοι vengono citati come gruppo omogeneo dotato di una qualche capacità decisionale, senza dubbio il termine non può designare gli stranieri residenti, che di certo non potevano costituirsi come gruppo omogeneo (v. Annuario 1921-1922 n. 33, ll. 8-13). Va però detto che in diversi documenti, in cui non compaiono categorie che si possano con buona verosimiglianza identificare come stranieri residenti, è molto difficile stabilire se πάροικος sia utilizzato anche come sinonimo di ‘meteco’ o soltanto come indigeno non cittadino residente (Syll.3 742 II, ll. 22-26; IG XII.4 1 175, ll. 7-12; SEG 32.1243, ll. 16-18, 36-38, 42-45: in tutti questi casi non è chiaro se la categoria degli ξένοι inglobi anche gli stranieri residenti o soltanto quelli di passaggio). Quando invece il termine occorre giustapposto ai soli πολῖται (IG XII.1 1033, ll. 8-11) o ai πολῖται e agli ξένοι παρεπιδημοῦντες sembra indubitabile che esso inglobi anche gli stranieri residenti (IG XII.5 1 721, ll. 16-19, 25-27; IG XII.7 515, ll. 55-57, 71-74). Ammettendo poi che il termine, con la specifica valenza di indigeni non cittadini residenti nelle aree rurali delle poleis, si sia sviluppato in Asia minore, le cui città, come Efeso o Priene, avevano una χώρα molto estesa, è comprensibile che il termine sia stato esportato anche nel resto delle poleis greche, che pure non avevano la medesima conformazione geomorfologica e amministrativa, per designare gli stranieri residenti, sulla base dell’estraneità al corpo civico come qualità che accomunava entrambe le categorie. Sembra infatti senza dubbio questo il significato che il termine assume nei documenti provenienti dalla Macedonia e dalla Grecia continentale (IG VII 1862, ll. 1-3; IG VII 190, ll. 15-16; IG VII 2712, ll. 27-28; Hatzopoulos – Leukopoulou 1992-1996 I, n. A2 con Gagliardi 2017, 391-397, che ritiene che anche in alcune iscrizioni provenienti dalle isole egee il termine assuma come unico significato quello di straniero residente, sebbene in queste ultime il contesto non consenta di stabilirlo con certezza: v. per es. Syll.3 398, ll. 34-38 con Papazoglou 1997, 184-185; SEG 33.675, ll. 5-7 con Papazoglou 1997, 186, a meno di non voler intendere, con Gagliardi, i participi οἱ ἐνδαμεῦντες ο ἐπιδαμεῦντες, menzionati accanto ai πολῖται e ai πάροικοι, come riferiti esclusivamente agli stranieri di passaggio). Il termine assume un significato a parte nelle iscrizioni attiche della fine del III secolo. Si tratta di documenti provenienti da Ramnunte che promanano da quella che doveva essere la comunità formata dagli ex soldati macedoni che facevano parte della guarnigione che il Gonata prima del 229 aveva stanziato ad Atene. Tali ex soldati erano appunto denominati πάροικοι. Il termine ad hoc era stato probabilmente adottato per distinguerli dai meteci (anche se a partire dalla fine del IV secolo non abbiamo più attestazione del termine μέτοικος nelle fonti attiche) e per non reduplicare il termine, alquanto sgradito, di ἰσοτελεῖς, che doveva ricordare agli Ateniesi il periodo dell’occupazione macedone (v. per es. SEG 15.1958, 113, ll. 1-2; Pouilloux 1954 n. 19; Petrakos 1999 n. 43). Il termine πάροικος doveva sembrare particolarmente adatto per designare i veterani in questione, in quanto anch’essi rappresentavano una comunità omogenea di non cittadini dislocati in un’area lontana dal centro urbano, esattamente come i πάροικοι delle città costiere dell’Asia minore.
- J.M. Bertrand, “À propos des πάροικοι dans les cités d’Asie Mineure”, in P. Fröhlich, C. Müller (éds.), Citoyenneté et participation à la basse époque hellénistique, Genève 2005, 39-49.
- L. Gagliardi, I πάροικοι di Grecia e Macedonia in età ellenistica e nella prima età romana in A.D. Rizakis, F. Camia, S. Zoumbaki (eds.), Social Dynamics under Roman Rule Mobility and Status Change in the Provinces of Achaia and Macedonia Proceedings of a Conference Held at the French School of Athens, 30-31 May 2014, Athens 2017, 389-406
- Ph. Gauthier, Métèques, perièques et paroikoi: bilan et points d’interrogation in R. Lonis (éd.), L’étranger dans le monde grec. Actes du colloque organisé par l’Institut d’Études Anciennes (Nancy, may 1987), Nancy 1988, 23-46
- M. B. Hatzopoulos, L.D. Loukopoulou, Recherches sur les marches orientales des Téménides (Anthémonte, Kalindoia), I-II, Athènes 1992-1996.
- D. Kah, Paroikoi und Neubürger in Priene, in L.M. Günther (Hg.), Migration und Bürgerrecht in der hellenistischen Welt, Wiesbaden 2012, 51-71.
- F. Papazoglou, Laoi et paroikoi. Recherches sur les structures de la société hellénistique, Beograd 1997.
- B.C. Petrakos, Ὁ Δῆμος τοῦ Ῥαμνοῦντος: Σύνοψη τῶν ἀνασκαφῶν καὶ τῶν ἐρευνῶν (1913-1998), II, Οἱ ἐπιγραφές, Athens 1999.
- J. Pouilloux, La forteresse de Rhamnunte, Paris 1954
[G. Falco]
Phratria (φρατρία)/ Phrater (φράτηρ)
I termini phrater e phratria, che da un punto di vista etimologico vanno connessi al vocabolo indoeuropeo *bhrater, ‘fratello’, in greco non indicano la parentela di sangue bensì un’antichissima associazione di individui. Il dibattito sull’origine della fratria è molto acceso e non si esclude che questa istituzione possa risalire già all’età micenea. È già attestata nei poemi omerici come ripartizione fondamentale della comunità. In un passo dell’Iliade, ad esempio, appare insieme alla tribù (φῦλον) come possibile divisione dello schieramento militare (Hom. Il. 2, 362-363). Per Nestore, personaggio che incarna la saggezza, un uomo che ama la guerra intestina è ‘senza legge, senza casa e senza phrateres’, al di fuori cioè della civiltà umana (Hom. Il. 9, 63-64: ἀφρήτωρ ἀθέμιστος ἀνέστιός ἐστιν ἐκεῖνος ὃς πολέμου ἔραται ἐπιδημίου ὀκρυόεντος).
Il più antico riferimento alla fratria, dopo Omero, è in una lamina bronzea rinvenuta a Himera e databile tra la fine del VI e gli inizi del V secolo. Essa riporta una legge relativa all’assegnazione di oikopeda probabilmente ad un gruppo di esuli Zanclei (SEG 47, 1427 = IGDS II, 15). Sebbene il testo sia frammentario, si riconosce l’ordine di formare della nuove tribù «appena le fratrie avessero esposto le disposizioni scritte» (ℎαι φρατρίαι ἀ[ν]έδειξαν τὰ καταγεγραμένα). In che cosa consistessero tali dati da esporre resta molto incerto, ma si intuisce che alle fratrie si demandassero le operazioni preliminari relative alla creazione di nuove ripartizioni civiche. Non si può escludere, peraltro, che ta katagegramena fossero gli elenchi dei nuovi cittadini, considerato, ad esempio, il ruolo che le fratrie avevano ad Atene quali depositarie dei registri degli aventi diritto alla cittadinanza.
Piuttosto vicina cronologicamente a questa è la testimonianza epigrafica riscontrata in un’altra città siceliota, Camarina, dove le fratrie appaiono come delle unità artificiali create su base numerica nel quadro di una riorganizzazione complessiva del corpo civico (SEG 42, 846). Le oltre 150 tavolette plumbee, rinvenute nei pressi del tempio di Atena Poliade, contengono registrazioni anagrafiche, grazie alle quali, verosimilmente, era possibile dimostrare la propria identità civica in funzione di qualche attività pubblica.
L’esistenza della phratria è attestata anche in altri luoghi del mondo ellenico, come ad esempio ad Argo. In una placca di bronzo risalente a metà del V secolo alcuni cittadini argivi vengono identificati con il nome, il patronimico e il nome della fratria che rappresentava una modalità di divisione della popolazione. Possediamo, però, informazioni più accurate sul suo ruolo nella polis a proposito dell’Attica e per il periodo che va dal 450 fino al 250 a.C. quando poi essa andò in declino. Ad Atene, la fratria appare come un’associazione che assolve a funzioni essenziali di carattere familiare e religioso, ma non esclusivamente. Essa interviene, ad esempio, nell’ambito del diritto familiare, per perseguire un assassino. Secondo la legge di Dracone, risalente alla fine del VII secolo e ancora vigente nell’Atene classica (di cui possediamo la ripubblicazione del 409/408 a. C. IG 13.104), l’autore di un omicidio colposo avrebbe potuto ricevere il perdono da parte di uno dei parenti più stretti della vittima, ma qualora questi non fossero stati in vita, la responsabilità della decisione sarebbe ricaduta su alcuni membri della fratria.
Oltre ad un cospicuo numero di iscrizioni e a numerose attestazioni nelle orazioni giudiziarie di Iseo e Demostene, bisogna annoverare anche gli occasionali riferimenti nelle opere tragiche, storiche e filosofiche e le testimonianze epigrafiche come i cosiddetti ‘decreti dei Demotionidi’ del 396-5 (IG II2 1237). Questa iscrizione, rinvenuta nei pressi di Decelea, descrive in modo piuttosto dettagliato le procedure di ammissione alla fratria. Nell’intestazione si legge l’intitolazione a ‘Διὸς Φρατρίο’, divinità che insieme ad Atena Phratria tutelava le attività e le decisioni di queste associazioni di cittadini, come emerge anche da altre testimonianze (si veda ad esempio IG II² 2344). Nei decreti dei Demotionidi vengono citati anche i due riti di inserimento celebrati nella festa annuale delle fratrie ateniesi, le Apaturie, che avvenivano verosimilmente in due diversi momenti: il meion in prossimità della nascita e il koureion in fase adolescenziale. La documentazione in nostro possesso non aiuta a definire con chiarezza tali pratiche, ma si tratta in massima parte di riti riservati agli uomini, giacché l’introduzione delle donne viene citata molto raramente.
In fonti di vario genere si fa spesso riferimento contestualmente sia al demos sia alla phratria. Ad esempio, nelle Eumenidi di Eschilo, il coro si chiede su quali altari del demos potrà sacrificare e da quale fratria riceverà l’acqua lustrale Oreste, dopo che si è macchiato dell’omicidio della madre (A. Eu. 655-356: ποίοισι βωμοῖς χρώμενος τοῖς δημίοις; ποία δὲ χέρνιψ φρατέρων προσδέξεται;). O ancora, in un frammento di Cratino, leggiamo con ironia che Chirone che è stato a lungo lontano dalla patria per via della guerra, trova a stento parenti, compagni di demos e di fratria e finisce per ‘iscriversi’ ad una riunione di bevitori (Cratin, Cheiron fr. 9 Kock: πολλοστῷ δ’ ἔτει ἐκ τῶν πολεμίων οἴκαδ’ ἥκων, ξυγγενεῖς καὶ φράτερας καὶ δημότας εὑρὼν μόλις, εἰς τὸ κυλικεῖον ἐνεγράφην· Ζεὺς ἔστι μοι ἑρκεῖος, ἔστι φράτριος, τὰ τέλη τελῶ). Isocrate lamenta che durante la Guerra del Peloponneso i controlli sui cittadini furono meno stringenti e si cominciò a inserire nelle tombe pubbliche, nelle fratrie e nei registri del demo coloro che non ne avevano diritto (Isoc. 8, 88: τελευτῶντες δ᾽ ἔλαθον σφᾶς αὐτοὺς τοὺς μὲν τάφους τοὺς δημοσίους τῶν πολιτῶν ἐμπλήσαντες, τὰς δὲ φρατρίας καὶ τὰ γραμματεῖα τὰ ληξιαρχικὰ τῶν οὐδὲν τῇ πόλει προσηκόντων).
Nelle orazioni, l’introduzione alla fratria – sancita spesso dal verbo eisago – viene chiamata in causa per dimostrare i propri diritti in processi concernenti cittadinanza (e.g. D. 57, 54), eredità e adozione o al contrario per attaccare gli avversari in tribunale nei casi di presunto inserimento indebito (e.g. Is. 6, 21-24). In alcuni casi, per provare l’unione legale tra due cittadini si citano anche i gamelia, riti celebrati nella fratria in occasione del matrimonio, (e.g. Is. 3, 76 e 79; Is. 8, 18 e 20; D. 57, 43).
L’iscrizione alla fratria viene menzionata, inoltre, in diversi decreti concernenti la cittadinanza (si vedano tutti i casi riportati da Osborne come, ad esempio, IG II2 25; II2 103). In un decreto emanato ad Atene in seguito alla legge di Pericle sulla cittadinanza del 451/0 a.C. e riportato da Cratero (FGrHist 342 F4a-b), viene definita illegale l’iscrizione alla fratria da parte di colui che è nato da entrambi i genitori non cittadini (’Εὰν δέ τις ἐξ ἀμϕοῖν ξένοιν γεγονὼς ϕρατρίζῃ, διώκειν εἶναι τῷ βουλομένῳ ’Αθηναίων, οἷς δίκαι εἰσὶ). In questo passo è attestato peraltro il verbo phratrizo, uno dei termini che come phratriarchos (“capo della phratria”), rimandano al funzionamento e alla struttura dell’associazione (si veda la scheda relativa: https://politeia.unimi.it/2023/05/28/craterus-fgrhist-342-f4a-b-nautodikai-anni-quaranta-del-v-sec-a-c/).
Per tutte queste ragioni, si ritiene, generalmente, che tutti i cittadini in età classica fossero iscritti ad una fratria e che questa, rispetto al demos, si occupasse precipuamente del controllo dei requisiti necessari per la partecipazione alla cittadinanza (Lambert 1993). Secondo un’altra recente interpretazione, invece, l’appartenenza alla fratria sarebbe stata chiamata in causa non tanto a proposito del diritto di cittadinanza, quanto per quello alla successione legittima (Joyce 2019): soltanto chi risultasse iscritto regolarmente ad una phratria, aveva diritto a ricevere l’eredità paterna, mentre i nothoi, esclusi da questa associazione e da questa prerogativa, godevano degli altri diritti civici.
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- D. Russo, Le ripartizioni civiche di Atene. Una storia archeologica di tribù, demi e fratrie (508/7-308/307 A.C.), Annuario della Scuola archeologica di Atene e delle missioni italiane in Oriente, Supplemento10, Roma-Atene 2022.
- O. Tribulato, La legge tardo-arcaica di Himera (SEG 47, no 1427; IGDS II n° 15). Un riesame linguistico ed epigrafico, in Pallas 109, 2019, 167-193.
[G. Ingarao]
Politis (πολῖτις)
Il termine risulta di uso piuttosto raro se paragonato all’altro sostantivo usato per designare la cittadina, aste, specialmente nelle fonti attiche (per una recente trattazione generale sul concetto piuttosto problematico di cittadinanza femminile nel contesto ateniese v. Joyce 2023). In taluni casi, l’uso di politis sembra rispondere all’esigenza, da parte dello scrivente di sottolineare la dimensione più specificamente politica, (piuttosto che domestica e famigliare) entro cui la donna o le donne in questione vengono menzionate. Tale è per esempio il caso di Soph. El. 1227, in cui le politides sono le donne alle quali Elettra si rivolge per annunciare il ritorno di Oreste, evento che lascia presagire l’inizio di un nuovo regime politico dopo quello di Clitemestra ed Egisto (cf. Eur. El. 1137 con Joyce 2023, 350). Sempre in una cornice politico-ideologica sembra muoversi l’oratore in [Demosth.] 57.30 e 43, in cui si serve di politis, oltre che di aste, per qualificare lo statuto di sua madre, specularmente a come fa con suo padre, designato nel corso dell’orazione come astos e polites (si veda a tal proposito a Mossé 1985, 78). In un contesto non già politico, ma militare si muove Platone in Leg. 814c, dove si vagheggia di una legge che imponga tanto ai politai quanto alle politides di occuparsi della guerra. Dunque, il termine è calato in un contesto diverso da quello strettamente privato e famigliare, e ciò sembrerebbe spiegare l’uso di politis piuttosto che di aste. Più problematica è però l’occorrenza del termine in [Demosth.] 59.107, in cui si dice che Neera non era né aste (in quanto non ateniese di nascita) né politis (in quanto non insignita della cittadinanza dal demos): sebbene il mondo greco delle poleis o dei koina restituisca attestazioni di cittadinanza conferita per decreto a delle donne (v. per es. SEG 15.384; 18.264, 370/68 a.C.; IG IX.1² 1.9, l. 6, 300-250 a.C.), per l’Atene classica non possediamo alcun caso (al conferimento della cittadinanza a una donna da parte del demos ateniese fa riferimento solamente un epigramma funerario del I secolo d. C.: IG XII.5 307, ll. 7-8). Probabilmente dunque in questo caso siamo di fronte a un artificio retorico basato sull’applicazione di una contrapposizione tipicamente maschile a un individuo di sesso femminile al fine di enfatizzare ulteriormente l’impossibilità di considerare Neera una cittadina ateniese (v. Kapparis 1999, 399-400). In altri casi il termine politis sembra sovrapponibile ad aste, in quanto viene usato semplicemente per alludere alla discendenza da una madre cittadina (v. Isoc. 14.51; Demosth. 23.213; Is. 8.43 cf. Arst. Pol. 1275b 33; 1278a 28). Al di fuori del contesto ateniese, il termine risulta spesso usato per designare le cittadine che, insieme ai politai, formano un gruppo ben distinto dalle altre categorie che abitano la stessa città: v. IG XII.4 1.75 A, ll. 9-10 (Cos, 202/1 a.C.: politai e politides distinti da nothoi, paroikoi e xenoi); IG XII.4 1.320, ll. 11-12 (Cos, tardo II secolo a. C.: politai e politides distinti dagli altri che katoikousi la città); IG XII.7 386 ll. 17-18, 21-22 (Amorgo, III secolo a.C.: politai e politides distinti da douloi ed exeleutheroi). Il termine politis occorre infine in contesti religiosi e cultuali: v. IG XII.4 1.304, l. 19 (Cos, 200-150 a.C.) e IG XII.4 1.326, l. 24 (Cos, 100-50 a.C.), in cui è stabilito che la sacerdotessa di Dioniso Thyllophoros avrebbe avuto facoltà di designare una politis come hyphiereia; si veda inoltre Milet VI.2 733 (III-II secolo a.C.), in cui vengono menzionate le bacchai polietides di Mileto che rivolgono il proprio saluto alla sacerdotessa di Dioniso.
- C. Joyce, Could Athenian Women be counted as citizens in Democratic Athens in J. Filonik, C. Plastow, R. Zelnick-Abramovitz (eds.), Citizenship in Antiquity. Civic Communities in the Ancient Mediterranean, London – New York 2023, 342-354
- K. A. Kapparis, Apollodoros. Against Neaera, Berlin – New York 1999
- C. Mossé, Ἀστὴ καὶ πολῖτις. La dénomination de la femme athénienne dans les plaidoyers démosthéniens, Ktèma 10, 1985, 77-79
[G. Falco]
Prostates (προστάτης)
Il termine prostates (προστάτης) ha una molteplicità di significati: può essere impiegato per identificare un leader politico, segnatamente di parte democratica (προστάτης τοῦ δήμου), il presidente di un collegio (ad esempio, προστάτης προβούλων in IG IX 12.4 798, ll. 116-117, iscrizione da Corcira, II sec.), più in generale un ruolo di guida o di capo (ad esempio, Senofonte in HG 3.1.3 definisce gli Spartani come τῆς Ἑλλάδος προστάται) o ancora colui che si erge come difensore (Demosth. 15.30: προστάται τῆς πάντων ἐλευθερίας); nell’ambito delle questioni relative alla cittadinanza, esso designa il “garante” che i meteci e i liberti dovevano avere per poter risiedere nella città che li ospitava. Il prostates dei meteci, per il quale possediamo informazioni provenienti quasi esclusivamente dal contesto ateniese (al di fuori di esso, cfr. ad esempio Lys. 31.9; Lycurg. 1.21; Gauthier 1972, 128-136), è il cittadino che funge da garante per uno straniero residente. Il meteco sceglieva liberamente il proprio prostates (Isocr. 8.53), forse sulla base di una conoscenza pregressa, e quest’ultimo presenziava al momento della trascrizione del nome del meteco nei registri del demo in cui egli avrebbe risieduto. Tra i doveri del meteco vi era quello di versare la tassa di residenza (μετοίκιον), sotto la supervisione del prostates (cfr. ad esempio Demosth. 25.56-58; Suid. s.v. νέμειν προστάτην); è probabile che quest’ultimo accompagnasse il proprio assistito di fronte ai funzionari preposti e che in caso di contestazione, per evitare la ἀπαγωγή del meteco presunto insolvente, egli avesse titolo per garantire di fronte al polemarco che la contribuzione era avvenuta regolarmente. Le fonti lessicografiche attestano che il prostates assisteva il meteco περὶ πάντων τῶν ἰδίων καὶ τῶν κοινῶν (cfr. ad esempio Harp. s.v. ἀπροστασίου). A prescindere dalla genericità del riferimento, gli studiosi si sono chiesti se, come sembrerebbe emergere soprattutto dalle fonti lessicografiche, il prostates fosse una figura permanente nel corso del periodo di residenza ateniese del meteco e quale ruolo esso rivestisse specificamente nell’ambito giudiziario. Quanto al primo problema, benché vi sia stato chi riteneva che il prostates fosse un semplice “padrino” che interveniva solamente al momento dell’iscrizione del meteco (ad esempio, Wilamowitz 1877, 232), è forse più probabile che il garante fosse una presenza continuativa nella vita dello straniero (ad esempio, Gauthier 1972, 126-136; Whitehead 1977, 89-92; Tuci 2023, 103 ss.), come suggeriscono sia fonti di IV secolo (come Isoc. 8.53), sia autori come Aprocrazione, che era certamente molto ben documentato sull’oratoria giudiziaria ateniese. Quanto al ruolo del prostates in ambito giudiziario, la fonte principale è un passo della Politica di Aristotele (1275a11-13), in cui, tentando di definire il concetto di cittadino, lo Stagirita afferma che in parecchi casi i meteci non partecipano compiutamente alla vita giudiziaria, bensì è per loro necessario ricorrere a un garante (πολλαχοῦ μὲν οὖν οὐδὲ τούτων τελέως οἱ μέτοικοι μετέχουσιν, ἀλλὰ νέμειν ἀνάγκη προστάτην). Del resto, numerose fonti lessicografiche attestano l’esistenza di una γραφὴἀπροστασίου (cfr. anche Arist. Ath. Pol. 58.3) che colpiva lo straniero residente che non avesse un prostates, che non pagasse il μετοίκιον o che si fosse fatto iscrivere illegalmente come ἀστός(cfr. ad esempio Harp. s.v. ἀπροστασίου). È probabile che nel V secolo e fino alla metà del IV il garante fosse necessario in tutti i casi in cui il meteco doveva presentarsi di fronte al polemarco, al fine di attestare, nella fase dell’ἀνάκρισις, lo stato giuridico del suo assistito e che successivamente, nel caso delle δίκαι ἐμπορικαίil meteco, esattamente come loξένος, non aveva più bisogno di essere introdotto dal suo prostates perché in questo caso i magistrati agivano ratione rei e non ratione personae (Gauthier 1972, 132 ss.). Il ruolo del garante dovette dunque progressivamente declinare, come dimostra anche il fatto che all’inizio del III secolo Dinarco, originario di Corinto, intentò ad Atene una causa di natura privata contro l’amico Prosseno e apparve di persona in tribunale (Dion. Hal. Din. 3.1; [Plut.] Mor. 850e). Tuttavia, probabilmente la figura non venne del tutto soppressa, dal momento che essa aveva anche competenze diverse da quelle relative all’ambito giudiziario: del resto, una serie di φιάλαιdella seconda metà del IV secolo sembrerebbero attestare casi di γραφὴἀπροστασίου nei quali i meteci uscirono assolti (Meyer 2010, 11-80), elemento che indurrebbe a confermare la persistenza di un ruolo attivo per il prostates. Sul prostates dei liberti (ἀπελεύθεροι o, se si trattava di liberi divenuti schiavi e poi liberati, ἐξελεύθεροι: cfr. Et. Gud. s.v. ἀπελεύθερος καὶ ἐξελεύθερος) possediamo poche notizie: è possibile che il liberto fosse obbligato ad avere come prostates il suo ex padrone, il ruolo del quale era tutelato dalla δίκη ἀποστασίου (Harp. s.v. ἀποστασίου), ma la questione è discussa (Sosin 2016, 8 ss.). Nella speculazione teorica delle Leggi di Platone (915a) si legge che tra i vari obblighi del liberto c’era anche quello di presentarsi tre volte al mese di fronte al suo prostates, mostrando dunque, almeno nell’ideale platonico, una continuità nel rapporto tra i due.
- M. Adak, Metöken als Wohltäter Athens. Untersuchungen zum sozialen Austausch zwischen ortsansassigen Fremden und der Burgergemeinde in klassischer und hellenistischer Zeit (ca. 500-150 v. Chr.), München 2003
- P. Gauthier, Symbola. Les étrangers et la justice dans les cites grecques, Nancy 1972
- E.A. Meyer, Metics and the Athenian Phialai-Inscriptions: A Study in Athenian Epigraphy and Law, Wiesbaden 2009
- J.D. Sosin, A metic was a metic, Historia 65.1 (2016), 2-13
- P.A. Tuci, Tra il meteco e la polis: ricerche sul ruolo del prostates, RIL 141 (2007) 237-281
- P.A. Tuci, La crusca e la farina. Attualità del pensiero di Philippe Gauthier sui meteci, Dike 26 (2023), 101-126
- D. Whitehead, The Ideology of the Athenian Metic, Cambridge 1977
- U. von Wilamowitz-Moellendorff, Demotika der attischen Metoeken, I-II, Hermes 22 (1887) 107-128; 211-259
[P. A. Tuci]
Proxenos (πρόξενος)
Il prosseno (πρόξενος) è un cittadino che, continuando a risiedere nella propria città, rappresenta la comunità straniera che gli ha concesso quel titolo. Etimologicamente il termine è un composto di ξένος e indica, dunque, colui che agisce secondo i rapporti di ξενία: più precisamente, un prosseno garantisce i vincoli di ospitalità non già a un singolo individuo, bensì a una comunità intera. L’istituto della prossenia è diffuso in tutto il mondo greco, lungo un ampio arco cronologico molto ampio, che giunge fino all’età romana. Esso è testimoniato soprattutto da fonti epigrafiche, ma anche per via letteraria. Una delle testimonianze più antiche è un’iscrizione di Corcira risalente all’inizio del VI secolo, il cenotafio di un certo Menekrates, figlio di Tlasia, di Eantea (in Locride Ozolia), che è qualificato come πρόξενϝος δάμου φίλος (IG IX 12.4 882). Diverse sono le categorie di iscrizioni nelle quali sono menzionati i prosseni: un caso particolare ma degno di nota è costituito da vere e proprie liste di nomi (raccolte in Mack 2015, 286-361), mentre quello più frequente sono i decreti di prossenia, con i quali, per meriti particolari, una città conferisce questo onore (ed eventualmente altri ad esso collegati) a un individuo. Possediamo decreti di questo genere promulgati da più di 180 città, tra cui soprattutto Delfi, Delo, Oropo, Atene, ma anche da entità politiche di diversa natura come federazioni (Mack 2015, 9; 14). La forma di questi testi è prevalentemente standard: quasi sempre è ricordata la motivazione della concessione, introdotta dalla congiunzione ἐπειδή. Ad esempio, in un’iscrizione del 349/8 (IG II2 294 = IG II3 1, 552) si legge che gli Ateniesi concedono la prossenia a Theogenes di Naucrati perché egli è ἀνὴρ ἀγαθός nei confronti del demos degli Ateniesi e agisce bene, ora e in precedenza, lui e i suoi antenati, verso gli Ateniesi che giungono a Naucrati per affari pubblici e privati. Gli aggettivi che più frequentemente vengono impiegati per caratterizzare l’onorando sono ἀγαθός, εὔνους, πρόθυμος, φίλος, che ne sottolineano la buona disposizione e sono riferiti sempre non già a qualità generiche, bensì al comportamento nei confronti della comunità che concede la prossenia; degni di menzione anche χρήσιμος ed εὔχρηστος, che ne sottolineano più concretamente l’“utilità” nei confronti della comunità di cui sono prosseni. Il tipo di assistenza che il prosseno offre alla comunità può essere illustrato con diverse espressioni: ad esempio, in una iscrizione di Teno del III secolo si dice che il mitilenese Melesia figlio di Melesia offre sempre servizi ai Teni che si rivolgono a lui per affari pubblici o privati (IG XII 5, 798: διατελεῖ χρείας παρεχόμενος καὶ κοινεῖ τῆι πόλει καὶ ἰδίαι Τηνίων τοῖς ἐντυνχάνουσιν ἑαυτῶι); altrove si trovano locuzioni come ποιῶν ὅ τι δύναται ἀγαθόν (IG IX.4 639, da Delo, III sec.), λέγων καὶ πράττων ἀεὶ τὰ συμφέροντα τῶι δήμωι (IG XII.9 221, da Eretria, III sec.), o simili. Naturalmente, lo status del prosseno poteva in qualche modo influenzare i servigi che questi poteva fornire. Molti dei prosseni sono a noi sconosciuti, ma talvolta si trovano nomi di personaggi che rivestono ruoli istituzionali, anche di una certa levatura: ad esempio, re, dinasti, funzionari reali, ufficiali militari, magistrati, inviati, giudici, sacerdoti; accanto a questi incontriamo individui legati al mondo della cultura, come filosofi, poeti, artisti, e dell’economia, come mercanti e banchieri (per un elenco più completo, Mack 2015, 59). Un altro aspetto caratteristico dei decreti di prossenia è la sottolineatura del fatto che la comunità che li emette si aspetta che il prosseno continui ad agire anche nel presente (e nel futuro) con la sollecitudine che ha dimostrato fino a quel momento: a questo proposito si usa spesso il verbo διατελέω seguito dal participio o espressioni che mettono in evidenza l’aspetto temporale (cfr. il testo sopra riportato di IG II2 294 = IG II3 1, 552). L’apertura verso il futuro si trova anche in iscrizioni come IG II2 1137: un decreto datato al 193/2 con cui gli Ateniesi concedono la prossenia a Charmion, figlio di Eumaridas di Cidonia (a Creta): in esso non solo il suo comportamento passato è impiegato per motivare la concessione della prossenia (ll- 51-59), ma si dice anche che per il futuro (εἰς τὸ λοιπόν) Charmion, mostrando la propria buona disposizione (αἵρεσις) nei confronti di Atene, potrà ottenere ulteriori benefici, qualora ne appaia degno (ll. 67-70). Tipica, poi, è la formula πρόξενος καὶ εὐεργέτης, che si riscontra non solo nei testi epigrafici (ad esempio IG I3 126, da Atene; IG IX.4 543, da Delo) ma anche in quelli letterari (ad esempio, Hdt. 8.136.1; Xenoph. HG 6.1.4). Più in generale, è evidente l’importanza dell’evergetismo nell’ambito delle concessioni di prossenia; tuttavia, va notato che non tutti gli εὐεργέται hanno anche il titolo di prosseni. Le attestazioni letterarie sono meno numerose, ma forniscono prospettive interessanti: è, ad esempio, da queste che emerge come i prosseni potessero compiere azioni di spionaggio (cfr. Thuc. 3.2.3); più in generale, essi potevano essere sospettati di tradimento, correndo rischi particolari soprattutto in caso di conflitti fra la comunità d’origine e quella per cui rivestivano la prossenia. Nel teatro si trova eco più volte del ruolo dei prosseni nell’accogliere stranieri o delegazioni straniere (Aesch. Supp. 234 ss.; Aristoph. Av. 1021), ma è soprattutto in altri generi che si incontrano maggiori testimonianze. Per quello storiografico, si vedano ad esempio i numerosi passi di Tucidide (2.29.1; 2.85.5; 3.2.3; 3.52.5; 3.70.1; 4.78.1; 5.43.2; 5.59.5; 5.76.3; 6.89.2) e Senofonte (HG 1.135; 4.5.6; 5.4.22; 6.1.4; 6.3.4; 7.2.16), interessanti perché offrono esempi di prosseni “in azione” (anziché semplicemente fotografare il momento della concessione della prossenia, come accade per i decreti di prossenia). Per l’oratoria, il testimone principale è Demostene (ma cfr. ad esempio anche Aeschin. 3.138; Din. 1.45); l’orazione LII del corpus Demosthenicum ha come protagonista Callippo, prosseno degli Eracleesi, accusato da Apollodoro relativamente a una somma di denaro che l’eracleota Licone aveva depositato presso la banca di Pasione. Significativo un passo di Platone nel quale Megillo, uno spartano prosseno degli Ateniesi, afferma che i prosseni nutrono benevolenza verso la città che li ha resi tali e che la considerano quasi come una δεύτερα πατρίς (Pl. Lg. 642b).
- E. Culasso Gastaldi, Le prossenie ateniesi del IV secolo a.C.: gli onorati asiatici, Alessandria 2004
- A. Gerolymatos, Espionage and Treason. A Study of the Proxenia in Political and Military Intelligence Gathering in Classical Greece, Amsterdam 1986
- W. Mack, Proxeny and Polis. Institutional Networks in the Ancient Greek World, Oxford 2015
- C. Marek, Die Proxenie, 1984
- M.B. Walbank, Athenian Proxenies of the Fifth Century B.C., Toronto-Sarasota 1978
[P. A. Tuci]
R
S
Sympoliteia (συμπολιτεία)
Sympoliteia (sympoliteuein, sympoliteuesthai) indica la condivisione della cittadinanza (= koinonein tes poleos), anche in contesto cittadino (per esempio in Isoc. 16.44). In contesto federale si può tradurre con “cittadinanza comune” o “doppia cittadinanza” ed esprime la coesistenza di una cittadinanza federale con una cittadinanza locale (della polis o del villaggio). In ambito ufficiale, essa si esprime nella definizione onomastica del cittadino, che accosta all’etnico del koinon (per esempio Thessalos, “Tessalo”) la specificazione della località (città o villaggio) di origine, espressa con un complemento di provenienza (ek Larisses, “di Larissa”). Della formula esistono anche attestazioni letterarie.
Le più antiche attestazioni del termine sympoliteia (nella forma verbale sympoliteuein) ricorrono in due testi del IV secolo, sostanzialmente contemporanei, la cui reciproca relazione cronologica è difficile da stabilire. Il primo è il capitolo 19.2-4, pp. 32-33 Chambers delle Elleniche di Ossirinco, in cui si utilizza il termine tecnico sympoliteuein per identificare il rapporto tra la città beotica di Platea e i choria di Scolo, Eritre, Scafe (e cioè un rapporto simpolitico secondario all’interno della più ampia Lega beotica). Il secondo, tratto dalle Elleniche di Senofonte (5.2.11-19) e relativo al processo di potenziamento della Lega calcidica (cioè la lega delle città Calcidesi di Tracia) ad opera della città di Olinto nel 382, non solo attesta la terminologia della sympoliteia, ma chiarisce anche cosa essa comportasse concretamente: leggi comuni, esercito comune, messa in comune delle risorse economiche e delle rendite dei porti e dei mercati, scambio di diritti di matrimonio (epigamia) e di proprietà (enktesis). Il termine è usato da Polibio, che pure cerca di innovare il lessico del federalismo, per gli Achei (20.6.7; 22.8.9; 23.17.1) e per altre federazioni, anche nella forma quasi pleonastica koine sympoliteia (24.8.3; 27.2.10) e nella forma ethnike sympoliteia (2.44.5), che esplicita al di là di ogni dubbio il riferimento allo stato federale. Della sympoliteia c’è comunque traccia modesta nelle fonti, soprattutto a livello epigrafico: per individuare gli stati federali e i loro cittadini si ricorre con maggior frequenza all’uso dell’etnico.
- C. Bearzot, Il federalismo greco, Bologna 2014
- M. Sordi, Il federalismo greco nell’età classica, in Federazioni e federalismo nell’Europa antica (Atti del Convegno Bergamo, 21-25 settembre 1992), Milano 1994, 3-22
[C. Bearzot]
Synteleia (συντέλεια)
Synteleia (syntelein) indica propriamente la condivisione degli oneri fiscali, ma può avere un significato più ampio, di unione di comunità riunite insieme in uno stato più vasto. In Erodoto la terminologia della synteleia è già applicata al contesto federale: a proposito delle vicende del 519, i Corinzi, chiamati a dirimere il contenzioso fra Tebe e Platea, dichiararono che non era possibile obbligare una città a syntelein, cioè ad aderire a una federazione, se non lo voleva (Her. 6.108). Syntelein è usato nel capitolo 19.2-4, pp. 32-33 Chambers delle Elleniche di Ossirinco per indicare un rapporto di tipo federale tra alcune città beotiche e Tebe. Anche in Polibio trova applicazione per indicare la federazione achea (5.94.1 synteleia patrike). In Diodoro è normalmente usato per indicare la lega beotica rifondata nel IV secolo e riunita intorno a Tebe (per esempio 12.41.3; 15.38,4; 15.50.4-5; 15.79.2) o la lega arcadica (15.59.1), talora nella forma mia synteleia. Il termine sembra accentuare, nelle federazioni, il concetto di dipendenza da un centro di potere.
- S.C. Bakhuizen, Thebes and Boeotia in the Fourth Century B.C., Phoenix 48 (1994), 307-330
- C. Bearzot, Il federalismo greco, Bologna 2014
[C. Bearzot]
Systasis (σύστασις)
Il termine indica il riunirsi insieme per diversi scopi. Tra questi c’è la formazione di una unione politica (per esempio Isoc. 3.54) o di una struttura costituzionale (Pl. R. 546a, Lg. 702d). Il termine systasis è usato da Polibio, nel VI libro, nel senso di “struttura costituzionale”, soprattutto a proposito del processo di formazione (con auxesis). In tre occorrenze indica le “federazioni” (23.1.4; 30.13.6; 32.4.2; negli ultimi due casi con la specificazione ethnikai, per renderlo meno generico). Systasis sembra voler sottolineare l’esistenza di una “struttura” politica dalle specifiche caratteristiche, esito di uno sviluppo coerente.
- C. Bearzot, Ancient Theoretical Reflections on Federalism, in H. Beck and P. Funke (eds.), Federalism in Greek Antiquity, Cambridge 2015, 503-511
[C. Bearzot]
Systema (σύστημα)
II termine indica un tutto composto da parti diverse ben armonizzate, come l’italiano “sistema”. Uno dei suoi significati è “governo organizzato, costituzione” (Pl. Lg. 686b, Arst. EN 1168b32; Polyb. 6.4.5; 6.5.10; 6.10.14). Su questo significato si basa l’uso polibiano nel senso di “federazione” (2.38.6; 2.41.15; 4.60.10, per gli Achei; 9.28.2, per i Calcidesi di Tracia). Systema sembra evidenziare, nel contesto della volontà di Polibio di innovare il lessico del federalismo, la complessità dello stato federale, che riunisce e armonizza realtà diverse. Strabone (14.3.3) lo utilizza per il koinon licio; cfr. TAM II 175 e 508.
- C. Bearzot, Ancient Theoretical Reflections on Federalism, in H. Beck and P. Funke (eds.), Federalism in Greek Antiquity, Cambridge 2015, 503-511
[C. Bearzot]
T
U
X
Xenikon/Xenika tele (ξενικόν/ξενικὰ τέλη)
Un’antica legge ateniese, probabilmente risalente a Solone e rinnovata da Aristofonte di Azenia, vietava agli stranieri di lavorare nell’agora (Dem. 57.31), a meno che non pagassero una imposta specifica, nota come ξενικόν o ξενικὰ (scil. τέλη, Dem. 57.34). Non si conosce la sua entità, ma è possibile che si trattasse di un’imposta sull’occupazione del suolo pubblico. Dal suo pagamento erano esclusi gli stranieri residenti (Lex. Seg. s.v. ἰσοτελεῖς).
- L. Loddo, La legge ateniese sull’interdizione degli stranieri dal mercato: da Solone ad Aristofonte di Azenia, Klio 100.3, 2018, 667-687
- L. Migeotte, Les finances des cités grecques aux périodes classique et hellénistique, Paris 2014
- D. Whitehead, The Ideology of the Athenian Metic, Cambridge 1977
[L. Loddo]
Xenodikai (ξενοδίκαι)
La magistratura degli xenodikai conosce pochissime attestazioni. È nota esclusivamente per via epigrafica in ambiente ateniese (IG I³ 439, l. 75 e 440, l. 26, rendiconti del Partenone per gli anni 444/3 e 443/2 a.C; Agora XVI 47, convenzione tra Atene e Stymphalos, 368/7 a.C.; IG II² 46, convenzione tra Atene e Trezene, prima metà del IV sec. a.C.) e in Grecia centrale (arbitrato che coinvolge Megara, Tebe ed Eleutherai della seconda metà del VI sec. a.C., notizia preliminare in Matthaiou 2014, 213-215; IG IX 1² 3 717, trattato locrese tra Oianthea e Chaleion, 450 a.C. ca., e IG IX 1 32, homologia tra Stiris e Medeon in Focide, 170 a.C. ca.). La loro menzione nei rendiconti del Partenone potrebbe essere connessa con la presenza in questi documenti di diversi stranieri tra le maestranze coinvolte nei lavori e con la possibile esistenza di convenzioni formali tra le poleis di provenienza e Atene, secondo una procedura analoga a quella che si può ipotizzare per i due casi ateniesi di IV sec. a.C. Ma su questo non vi è alcuna certezza. La più antica attestazione del termine è nell’arbitrato tra Megara e Tebe ed Eleutherai, da cui si deduce che gli xenodikai erano magistrati della città che agiva come arbitro (così Matthaiou 2014, 214). La convenzione tra Chaleion e Oianthea è di fatto l’unico documento da cui si evince con chiarezza che gli xenodikai erano giudici con funzione istruttoria di Chaleion ai quali venivano rimesse le cause degli abitanti di Oianthea, in quanto xenoi per Chaleion. Constatando come questi magistrati, con la sola eccezione dei rendiconti del Partenone, ricorrano sempre nell’ambito di convenzioni internazionali tra poleis, sembra di poter concludere più in generale che possa trattarsi di magistrati che operavano a seguito di accordi giudiziari tra stati occupandosi di cause riguardanti gli stranieri, da identificarsi con i cittadini dell’altra polis coinvolta nei symbola; nel caso di arbitrati, essi agivano analogamente per conto della città che fungeva da intermediario nei confronti dei cittadini delle poleis coinvolte nella disputa. Pare dunque da escludere che gli xenodikai possano essersi occupati ad Atene (o altrove) di graphai xenias, di cause legate all’accesso fraudolento alla cittadinanza. Non esiste dunque una sovrapposizione di competenze tra nautodikai e xenodikai (così Körte 1993, che riteneva che le due cariche si fossero avvicendate ad Atene nel corso del V sec. a.C.; per una discussione sulle due magistrature cf. già Cavaignac 1908, LXVII-LXVIII; Cohen 1973, 163-176; Erdas 2021, 48-49).
- E. Cavaignac, Études sur I’histoire financière d’Athènes au Ve siècle, Paris 1908
- E. Cohen, Ancient Athenian Maritime Courts, Princeton NJ 1973
- D. Erdas, I nautodikai. Note su una magistratura ateniese tra cause di xenia e giurisdizione sugli emporoi, Dike 24, 2021, 33-62
- A. Körte, Die Attischen Ξενοδίκαι, Hermes 68, 1933, 238-242
- A. Matthaiou, Four Inscribed Bronze Tablets from Thebes: Preliminary Notes, in N. Papazarkadas (ed.), The Epigraphy and History of Boeotia. New Finds, New Prospects, Leiden 2014, 211-222
[D. Erdas]
Xenodokoi (ξενοδόκοι)
Esichio (s.v. ξενοδόκος) lemma il termine ξενοδόκος in due modi: “colui che riceve gli stranieri” (ὑποδεχόμενος ξένους) – il significato letterale del termine – e “testimone” (μάρτυς), ma il significato di “testimone” rappresenta molto probabilmente un’evoluzione del senso originario. Gli xenodokoi sono menzionati principalmente in iscrizioni di area tessalica quali atti di manomissione e decreti onorari, ma rilevanti sono anche due documenti epigrafici che riportano il testo di patti tra due parti contraenti: la convenzione della syngheneia dei Basaidai (SEG 35.548) e l’accordo tra due poleis in Acaia Ftiotide, Tebe e Halos (FD III 4, 355). Di norma, gli xenodokoi compaiono nelle linee finali del documento epigrafico, spesso in collaborazione con magistrati della polis (strategoi e tagoi), apparentemente in qualità di garanti delle transazioni.
Negli atti di manomissione gli schiavi affrancati effettuano un pagamento alla polis alla presenza di xenodokoi (e.g. SEG 29.532; BCH 95 (1971), 562), ma sono attestati casi in cui magistrati diversi dagli xenodokoi agiscono da garanti della transazione (IG IX 2, 359-550); in aggiunta, talvolta la funzione di xenodokos viene affidata a un tago. Non sono sempre chiare né la distinzione tra idioi xenodokoi (nella forma ἰδιοξενοδόκοι in IG IX 2, 1282 III e IV), attestati ad esempio a Pythion, e koinoi xenodokoi né la natura dell’incarico che ricoprono: gli xenodokoi sembrano essere non tanto magistrati della polis, bensì privati cittadini, scelti come garanti ufficiali dalla comunità per svolgere un incarico ad hoc, incarico che poteva essere ricoperto all’occorrenza anche da magistrati civici.
Gli xenodokoi compaiono in decreti onorari di diverse città tessaliche: Phayttos, Mopsion, Atrax, Metropolis. Si tratta per lo più di koinoi xenodokoi, ma è attestata anche la forma συνξενοδόκων (e.g. nel decreto di prossenia della polis di Atrax per Orthotimos di Tylissos, SEG 33.448), che fa pensare a una sorta di collegio di xenodokoi. L’ipotesi che meglio spiega la loro funzione in questi documenti è quella che ne fa garanti delle relazioni tra stranieri e polis.
Più sfuggente appare la comprensione della funzione degli xenodokoi nei succitati accordi di poleis tessaliche. Nella convenzione tra Tebe e Halos, in cui le città si sottopongono all’arbitrato di un cittadino di Larisa, Makon, per una disputa territoriale, il termine xenodokoi è seguito da una lista di quattro nomi, appartenenti a cittadini di Melitea (ll. 22-23). Zelnick-Abramovitz (2000, 113) ha sostenuto che gli xenodokoi di Melitea agiscono come garanti sia della decisione delle parti di sottomettersi all’arbitrato sia della sentenza resa da Makon. L’esigenza di servirsi di xenodokoi si spiegherebbe alla luce del fatto che essi avrebbero dovuto ricevere i rappresentanti delle poleis che avevano sottoscritto l’esito dell’arbitrato, ogniqualvolta questi si fossero recati a Melitea per muovere rimostranze sull’applicazione del verdetto arbitrale. Non deve stupire che gli xenodokoi provengano da Melitea e non da Larisa, patria di Makon, dal momento che le parti, diversamente dal consueto, si rimettono ai servigi di una singola personalità e non a una polis. La presenza dei Melitei è indizio del coinvolgimento del koinon, ricostituito dopo il 196 a.C., nell’accordo, come si evince altresì dalla menzione del calendario federale alla l. 13 del documento e dalla presenza di magistrati federali come i tagoi. In aggiunta, come sottolineato da Ager, non è insolito che i garanti di trattati interstatali provengano da città diverse da quelle direttamente coinvolte nell’accordo, come nel caso dei Delfi nel trattato tra Chaleion e Tritea (IG IX,1² 3, 739).
Parimenti, nella convenzione dei Basaidai di Metropolis – un accordo tra syngheneis atto a regolamentare l’ammissione di nuovi membri – gli xenodokoi fungono da garanti perché l’accordo concerneva stranieri naturalizzati nella fase dell’ammissione alla syngheneia (Loddo) piuttosto che a causa della percezione dei nuovi membri come xenoi (Zelnick-Abramovitz).
- S. Ager, Interstate Arbitrations in the Greek World, 337-90 B.C., Berkeley 1996
- C. Habicht, Eine Bürgerrechtsverleihung von Metropolis, Klio 52, 1970, 139-148
- B. Helly, La Convention des Basaidai, BCH 94, 1970, 161-189
- L. Loddo, Considerazioni su cittadinanza e isotimia in alcuni decreti tessalici, Dike 27, 2024, 243-274
- R. Zelnick-Abramovitz, The Xenodokoi of Thessaly, ZPE 130, 2000, 109-120
[L. Loddo]