Euripides, Heracl. 181-200. Esilio come perdita della cittadinanza (430 a.C.)

Quando Euripide mise in scena gli Eraclidi, probabilmente nel 430 a.C., l’invasione dell’Attica da parte dei Peloponnesiaci si era già consumata. Il pubblico ateniese aveva visto coi propri occhi un esercito peloponnesiaco percorrere la stessa rotta dell’Euristeo di Euripide e devastare il territorio dell’Attica, aveva sperimentato l’abbandono delle campagne e il rifugio in luoghi di fortuna, perfino nei templi e nei santuari degli eroi (Thuc. 2.17.1). Poteva essere sensibile, pertanto, alla sorte dei fuggitivi che Euripide portava sulla scena. La tragedia tratta della storia della fuga dei figli di Eracle da Argo, divenuti esuli per sottrarsi alle persecuzioni del re Euristeo. Espulsi da tutte le città in cui avevano cercato rifugio a causa della pervicace persecuzione degli Argivi, giunsero infine a Maratona a chiedere asilo e protezione.

La concessione dell’asilo, tuttavia, era questione complessa ed Euripide illustra le tensioni che potevano derivare dal dover prendere una tale decisione. La tragedia inizia con un atto di violazione della sovranità ateniese da parte degli Argivi che, attraverso il loro araldo, tentano di costringere Atene a consegnare i supplici. Al discorso dell’araldo (vv. 134-178) segue la replica di Iolao (vv. 181-231), che ha accompagnato i bambini nelle loro peregrinazioni. Entrambi i protagonisti dell’agon fanno appello ai concetti di libertà e sovranità della polis. L’araldo ritiene che sia diritto degli Argivi esercitare la sovranità su chi abita la loro stessa città (οἰκοῦντες πόλιν, v. 142), appellandosi a temi come la superiore potenza degli Argivi e l’interesse degli Ateniesi. L’intervento di Iolao risulta più articolato. Prima fa riferimento alla correttezza del sistema giudiziario ateniese, in cui a chi si difende è concesso di parlare dopo aver ascoltato l’accusa. Poi contesta il diritto di Argo di mettere le mani sui figli di Eracle ricorrendo all’argomento che sono esuli e che l’esilio comporta la perdita della cittadinanza. Infine, fa appello all’argomento della stirpe comune (vv. 207 ss.; cf. Aesch. Supp. 325-326) e all’obbligo morale di concedere asilo.

Due considerazioni a proposito della richiesta di estradizione. In primo luogo, ogni richiesta di estradizione si fonda sullo status contestato degli esuli. Nel discorso dell’araldo, gli Eraclidi sono Argivi fuggiti dalla patria, criminali condannati e assimilati a schiavi fuggitivi (τούσδε δραπέτας, v. 140). Per Iolao, invece, gli Eraclidi sono esuli cacciati dalla terra natia (vv. 186, 188, 190), non sono più Micenei (v. 187), sono solo stranieri (ξένοι, v. 189). Sul loro essere cittadini di Argo o sul non esserlo più si gioca, in sostanza, la questione della giurisdizione. In secondo luogo, Iolao motiva la necessità di respingere la richiesta di estradizione, sottolineando la condizione di esuli degli Eraclidi. Significativa è l’opposizione tra ciò che lui e i bambini sono in quel momento (φεύγομεν) e ciò che non sono più (ἐπεὶ γὰρ Ἄργους οὐ μέτεσθ᾽ ἡμῖν ἔτι). La perdita della cittadinanza è resa mediante l’espressione che “essi non sono più partecipi di Argo”, secondo un modulo espressivo caratteristico non solo della tragedia (Soph. OT 630; Eur. Ion. 1297), ma che è generalizzato nelle fonti (Isoc. 16.46; Dem. 57.1, 23 e 55). Questa condizione fa sì che essi “non possano essere portati via come Micenei”, cioè non possano essere oggetto della richiesta di estradizione. A tale richiesta Iolao si riferisce due volte nel giro di pochi versi usando espressioni tecniche (ἄγοι, v. 187; ἤλαυνες, v. 196) e sottolineando come la giurisdizione di Argo non possa essere estesa a tutta la Grecia. Non sarà la paura degli Argivi a indurre gli Ateniesi a cacciare gli esuli, perché “Atene non è Trachis” (cf. Hecat. FGrHist 1 F 30: gli Eraclidi chiesero asilo a Ceice, re di Trachis, il quale intimò loro di lasciare la città per paura della reazione di Euristeo). Nella forza di resistere alle richieste di una potenza straniera risiede in definitiva la sovranità di Atene (v. 198).

(Ἰόλ.)   ἄναξ, ὑπάρχει γὰρ τόδ᾽ ἐν τῇ σῇ χθονί,
            εἰπεῖν ἀκοῦσαί τ᾽ ἐν μέρει πάρεστί μοι,
            κοὐδείς μ᾽ ἀπώσει πρόσθεν, ὥσπερ ἄλλοθεν.
            ἡμῖν δὲ καὶ τῷδ᾽ οὐδέν ἐστιν ἐν μέρει·
185      ἐπεὶ γὰρ Ἄργους οὐ μέτεσθ᾽ ἡμῖν ἔτι,
            ψήφῳ δοκῆσαν, ἀλλὰ φεύγομεν πάτραν,
            πῶς ἂν δικαίως ὡς Μυκηναίους ἄγοι
            ὅδ᾽ ὄντας ἡμᾶς, οὓς ἀπήλασαν χθονός;
            ξένοι γάρ ἐσμεν. ἢ τὸν Ἑλλήνων ὅρον
190      φεύγειν δικαιοῦθ᾽ ὅστις ἂν τἄργος φύγῃ;
            οὔκουν Ἀθήνας γ᾽· οὐ γὰρ Ἀργείων φόβῳ
            τοὺς Ἡρακλείους παῖδας ἐξελῶσι γῆς.
            οὐ γάρ τι Τραχίς ἐστιν οὐδ᾽ Ἀχαιικὸν
            πόλισμ᾽, ὅθεν σὺ τούσδε, τῇ δίκῃ μὲν οὔ,
195      τὸ δ᾽ Ἄργος ὀγκῶν, οἷάπερ καὶ νῦν λέγεις,
            ἤλαυνες ἱκέτας βωμίους καθημένους.
            εἰ γὰρ τόδ᾽ ἔσται καὶ λόγους κρινοῦσι σούς,
            οὐκ οἶδ᾽ Ἀθήνας τάσδ᾽ ἐλευθέρας ἔτι.
            ἀλλ᾽ οἶδ᾽ ἐγὼ τὸ τῶνδε λῆμα καὶ φύσιν·
200      θνῄσκειν θελήσουσ᾽· ἡ γὰρ αἰσχύνη <πάρος>
            τοῦ ζῆν παρ᾽ ἐσθλοῖς ἀνδράσιν νομίζεται.


(IOLAO) Sire (questo titolo ti spetta nella tua terra), tocca a me a mia volta parlare dopo aver ascoltato e nessuno mi caccerà prima, come è successo altrove. Tra noi e costui non c’è niente in comune. Siccome non siamo più cittadini di Argo, perché così è stato deliberato, ma siamo in esilio, con che diritto ci porterebbero via come Micenei se ci troviamo in tale condizione, perché ci hanno cacciato? Siamo stranieri. [All’araldo] O pretendete forse che chi è stato bandito da Argo lo sia da tutta la Grecia? Da Atene no di sicuro, perché per paura degli Argivi gli Ateniesi non respingeranno i figli di Eracle. Atene non è Trachis né una città achea, da dove tu, contro il diritto esaltando Argo, come fai adesso, indicando gli Eraclidi li facevi cacciare anche se sedevano supplici a un altare. Se accadrà questo e daranno ascolto ai tuoi discorsi, non riconosco più la libera Atene. [Indicando Demofonte e Acamante] Ma io conosco bene la natura degli Ateniesi. Preferiranno morire. Gli uomini nobili tengono l’onore in maggior considerazione della vita (trad. di O. Musso).

  • W. Allan (ed.), Euripides. The Children of Heracles, Warminster 2001
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  • L. Loddo, Rules for the Reception of Exiles in the Treaty Between Sinope and Heraclea Pontica (I. Sinope 1), CQ 73.1, 2023, 90-100
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  • D. Mendelsohn, Gender and the City in Euripides’ Political Plays, Oxford – New York 2002
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