Demosth. 57.41; 57.54. Prove di cittadinanza nella Contro Eubulide: la funzione dell’engye e della testimonianza orale (345 a. C.)

La Contro Eubulide (Demosth. 57) costituisce una fonte di primaria importanza per conoscere le modalità attraverso cui, nell’Atene della seconda metà del IV secolo a.C., veniva definita e messa alla prova l’appartenenza alla comunità civica. Il discorso prende le mosse dal caso di Eussiteo, un cittadino del demo di Alimunte, che fu escluso dalle liste civiche in occasione della diapsephisis del 346/5 a.C., una revisione sistematica dei registri demotici. Eubulide presiedette la procedura di esclusione e guidò il voto del demo, assumendo poi il ruolo di principale accusatore nel processo che avrebbe determinato l’eventuale reintegro di Eussiteo. Poiché, in assenza del consenso dei cittadini respinti (apopsephismenoi), la decisione del demo non poteva acquisire validità legale, il caso fu deferito al tribunale. Eubulide figurava tra i cinque rappresentanti designati dal demo per sostenere l’accusa in giudizio.

L’orazione offre uno spaccato significativo delle strategie probatorie adottate per dimostrare la cittadinanza e mette in luce le difficoltà legate alla verifica dello status materno, in un sistema in cui la legittimità civica richiedeva una conferma pubblica.

Secondo la legge di Pericle del 451/0 a.C., la cittadinanza ateniese era riservata a coloro che potevano vantare la nascita da entrambi i genitori ateniesi. Nel contesto del processo, Eussiteo si trovò dunque nella necessità di attestare non solo la cittadinanza paterna, ma anche quella materna. L’accusa, infatti, aveva cercato di delegittimare l’origine ateniese dei genitori: da un lato, si mise in dubbio lo status del padre, evocandone il presunto accento “straniero” (Demosth. 57.18-20); dall’altro, si fece leva sull’umile condizione lavorativa della madre (Demosth. 57.34-36), nel tentativo di insinuare una sua possibile estraneità alla cittadinanza.

Nel sistema ateniese, dimostrare la cittadinanza materna poteva rivelarsi più complesso rispetto a quella paterna, poiché le donne non erano registrate nei demi. Le fonti attestano, invece, la presentazione di bambine (Is. 3.73, 76) e di spose (Is. 3.76, 79; 8.18, 20; Demosth. 57.43, 69) da parte del kyrios — il padre o il marito — alle fratrie. Nei tribunali, tali eventi richiedevano comunque la convalida tramite testimonianze fornite dai parenti coinvolti, analogamente a quanto accadeva per gli uomini. Tuttavia, la scarsa visibilità delle donne nella sfera pubblica faceva sì che l’unico strumento disponibile per comprovarne lo status fosse la testimonianza di familiari o conoscenti, in grado di attestare momenti chiave della loro vita: la nascita da genitori ateniesi, la stipulazione dell’engye (o engyesis, l’atto con cui il kyrios prometteva la donna in sposa) e la celebrazione della gamelia, il banchetto nuziale attraverso cui la sposa veniva formalmente introdotta nella fratria dello sposo (cfr. Demosth. 57.43; Is. 3.30).

La limitata visibilità pubblica delle donne rendeva dunque difficoltoso attestare con certezza tali momenti. Ne derivava una maggiore vulnerabilità del loro status civico che poteva riflettersi sulla legittimità civica dei figli. Questa difficoltà probatoria non era solo di ordine pratico, ma rifletteva il più ampio squilibrio strutturale tra i generi all’interno della società ateniese: mentre l’identità maschile si fondava sulla presenza nelle sedi pubbliche e sull’esistenza di registri pubblici, quella femminile si basava quasi esclusivamente sulla parola giurata dei testimoni.

In questo quadro, la Contro Eubulide conferma il valore probatorio attribuito all’engyesis e alle testimonianze connesse a questo istituto nei processi relativi alla cittadinanza. In Demosth. 57.41 (a), Eussiteo fornisce una ricostruzione della celebrazione dell’engye tra i genitori: la madre fu promessa in sposa da suo fratello Timocrate a Tucrito, alla presenza di due zii e di altri testimoni. L’enfasi posta sulla regolarità della procedura e sull’esistenza di testimoni ancora in vita segnala l’importanza della memoria condivisa e del riconoscimento collettivo nella validazione della cittadinanza.

A sostegno della propria legittimità civica, Eussiteo fa inoltre riferimento, in Demosth. 57.54 (b), al proprio inserimento rituale nella fratria paterna e alla partecipazione al culto di Apollo Patrio. Poiché al momento del rito era ancora un bambino, egli sostiene di non aver potuto in alcun modo influenzare o corrompere i frateri. Fu il padre stesso, ancora in vita, a introdurlo solennemente, dichiarando sotto giuramento che il figlio era nato da una donna ateniese regolarmente promessa in matrimonio (engyete). Anche in questo caso, la prova dell’identità civica viene costruita attraverso la ritualità pubblica e la parola giurata, strumenti fondamentali per la creazione di una verità giuridica condivisa.

Nel complesso, i due passi della Contro Eubulide forniscono una testimonianza rilevante su come, nell’Atene del IV secolo a.C., la cittadinanza femminile fosse intrinsecamente legata alla capacità di comprovare la regolarità di un evento fondamentale come il matrimonio, oltre che la nascita. La legittimazione civica delle donne dipendeva, infatti, in larga misura dalla disponibilità di testimonianze che potessero confermare la corretta attuazione di questi rituali sociali, in quanto atti riconosciuti come fondamenti dell’appartenenza alla comunità civica.

a. Demosth. 57.41 ὁ Πρωτόμαχος πένης ἦν· ἐπικλήρου δὲ κληρονομήσας εὐπόρου, τὴν μητέρα βουληθεὶς ἐκδοῦναι πείθει λαβεῖν αὐτὴν Θούκριτον τὸν πατέρα τὸν ἐμόν, ὄνθ᾽ ἑαυτοῦ γνώριμον, καὶ ἐγγυᾶται ὁ πατὴρ τὴν μητέρα τὴν ἐμὴν παρὰ τοῦ ἀδελφοῦ αὐτῆς Τιμοκράτους Μελιτέως, παρόντων τῶν τε θείων ἀμφοτέρων τῶν ἑαυτοῦ καὶ ἄλλων μαρτύρων· καὶ τούτων ὅσοι ζῶσι, μαρτυρήσουσιν ὑμῖν.

Protomaco era un uomo povero, ma, dopo aver ricevuto in eredità una ricca epikleros ed essersi deciso a dare mia madre in sposa, convinse mio padre Tucrito, che era un suo conoscente, a prenderla in moglie. Mio padre ricevette mia madre in matrimonio dal fratello di lei, Timocrate di Melite, alla presenza di entrambi i suoi zii e di altri testimoni. Quanti di loro sono ancora in vita testimonieranno davanti a voi.

b. Demosth. 57.54 καὶ ταῦτ᾽ οὐχὶ νῦν πεπεισμένοι ποιοῦσιν, ἀλλὰ παιδίον ὄντα μ᾽ εὐθέως ἦγον εἰς τοὺς φράτερας, εἰς Ἀπόλλωνος πατρῴου ἦγον, εἰς τἄλλ᾽ ἱερά. καίτοι οὐ δήπου παῖς ὢν ἐγὼ ταῦτ᾽ ἔπειθον αὐτοὺς ἀργύριον διδούς. ἀλλὰ μὴν ὁ πατὴρ αὐτὸς ζῶν ὀμόσας τὸν νόμιμον τοῖς φράτερσιν ὅρκον εἰσήγαγέν με, ἀστὸν ἐξ ἀστῆς ἐγγυητῆς αὑτῷ γεγενημένον εἰδώς, καὶ ταῦτα μεμαρτύρηται.

E [coloro che affermano di essere miei parenti] non lo fanno certo perché io li avrei persuasi ora; al contrario, quando ero bambino, mi condussero subito presso i membri della fratria, al santuario di Apollo Patrio e agli altri luoghi sacri. Certamente, da bambino, non li convinsi a fare tutto ciò offrendo loro del denaro! Al contrario, quando era ancora in vita, mio padre mi presentò ai frateri dopo aver prestato il giuramento prescritto, consapevole che sono un cittadino, nato da una cittadina a lui promessa in matrimonio in modo legittimo. E questo è stato testimoniato.

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