Isocrates, 7.26-27. Il cittadino “democratico” (354 a.C.)

Come è noto, nell’Areopagitico Isocrate propone una riforma del sistema democratico ispirata alla “democrazia degli antenati” (§ 15), la democrazia “di Solone e Clistene” (§ 16); il contrasto tra quella democrazia (ekeine) e quella presente (parouse) è ampiamente sviluppato, finché si affronta in modo più preciso il modello della democrazia antica, che dovrebbe essere riesumato, e di conseguenza delle modalità di espressione dei diritti di cittadinanza (§§ 20-27).

L’antica politeia rendeva in cittadini migliori e più saggi (beltious kai sophronesterous): non confondeva akolasia con demokratia, paranomia con eleutheria, parrhesia con isonomia, exousia di far tutto questo con eudaimonia (§ 20). Essa, tra i due tipi di uguaglianze, quella che assegnava a tutti lo stesso indiscriminatamente e quella che dava a ciascuno ciò che gli spetta, sceglieva la seconda, basata sul merito. Di conseguenza, gli antichi non utilizzavano il sorteggio ex apanton per la selezione delle magistrature, ma l’elezione, che permetteva di individuare i beltistoi e gli ikanotatoi e riservava al demos la possibilità di scegliere i più sicuri sostenitori della democrazia. Dopo una polemica sul misthos (il sistema antico, che non lo prevedeva, era gradito perché il popolo di allora non era interessato ad arricchirsi coi beni pubblici), Isocrate chiude il ragionamento nei §§ 26-27:

Ὡς δὲ συντόμως εἰπεῖν, ἐκεῖνοι διεγνωκότες ἦσαν ὅτι δεῖ τὸν μὲν δῆμον ὥσπερ τύραννον καθιστάναι τὰς ἀρχὰς καὶ κολάζειν τοὺς ἐξαμαρτάνοντας καὶ κρίνειν περὶ τῶν ἀμφισβητουμένων, τοὺς δὲ σχολὴν ἄγειν δυναμένους καὶ βίον ἱκανὸν κεκτημένους ἐπιμελεῖσθαι τῶν κοινῶν ὥσπερ οἰκέτας, καὶ δικαίους μὲν γενομένους ἐπαινεῖσθαι καὶ στέργειν ταύτῃ τῇ τιμῇ, κακῶς δὲ διοικήσαντας μηδεμιᾶς συγγνώμης τυγχάνειν, ἀλλὰ ταῖς μεγίσταις ζημίαις περιπίπτειν. Καίτοι πῶς ἄν τις εὕροι ταύτης βεβαιοτέραν ἢ δικαιοτέραν δημοκρατίαν, τῆς τοὺς μὲν δυνατωτάτους ἐπὶ τὰς πράξεις καθιστάσης, αὐτῶν δὲ τούτων τὸν δῆμον κύριον ποιούσης;

Per dirla in breve, quelli avevano capito che il popolo, come un tiranno, deve designare i magistrati, punire coloro che sbagliano e giudicare le controversie, mentre coloro che hanno tempo libero e hanno abbastanza di che vivere devono occuparsi degli affari pubblici come servi, e se si sono mostrati giusti devono essere lodati e accontentarsi di questo onore, se invece hanno amministrato male non devono ottenere alcun perdono, ma incorrere nelle pene peggiori. Come si potrebbe trovare una democrazia più salda e più giusta di questa, che stabilisce alla guida degli affari pubblici i più capaci, e fa del popolo il loro padrone?

In questo passo si delinea con chiarezza l’immagine isocratea del cittadino “democratico”.

Prima di tutto, si rifiuta il sorteggio: l’esercizio delle magistrature spetta ai migliori e ai più capaci, che vanno individuati per elezione.

Secondo, viene introdotta una distinzione fra cittadini che possono esercitare il potere esecutivo (i dynatotatoi: ma si dice chiaramente che sono quelli che non hanno bisogno di lavorare) e cittadini (il demos) cui sono destinate altre funzioni, che escludono l’esercizio diretto del potere esecutivo. Al popolo resta il diritto di designare i magistrati per elezione e di sottoporli a rendiconto, nonché l’esercizio del potere giudiziario.

Siamo di fronte a un modello di democrazia chiaramente prepericlea (lo mostra la polemica sul misthos) e in fondo anche preclistenica (Clistene prevedeva per il demos l’accesso alla boule e alle magistrature minori). In esso si distingue chiaramente fra due categorie di cittadini di pieno diritto, cui sono destinati compiti diversi. Non si evince nulla, però sul potere legislativo dell’assemblea: certo esso non sembra previsto tra le competenze del demos.

Dopo aver rivendicato per l’Areopago il ruolo di epimelete dei comportamenti etici e politici (§§ 36-44) ed essersi difeso dall’accusa di essere antidemocratico (§§ 58-70), Isocrate nel § 78 invoca il cambiamento costituzionale:di fatto, egli propone una nuova edizione della “democrazia diversa” di Pisandro (Thuc. VIII, 53, 1). In questo quadro, la figura dell’archomenos polites (cfr. De pace 91) si delinea con maggior precisione: egli non può adire le magistrature, e quindi esercitare il potere esecutivo, né, probabilmente, il potere deliberativo; conserva il potere giudiziario.

Si tratta di una sensibile riduzione dei diritti del demos e della dimensione partecipativa che gli è riservata. L’insistenza sugli uomini migliori, sul merito e sulle competenze riporta al pensiero oligarchico del V secolo, per intenderci quello espresso da Megabizo nel Tripolitico (III, 81). La proposta è più blanda (o più vaga) per la difficoltà di dichiarare con chiarezza che si vogliono togliere al popolo quei poteri che aveva esercitato fin dai tempi di Clistene e di Pericle: ma l’obiettivo di espellere i teti dalle funzioni di governo sembra molto chiaro, come rivela la polemica sul misthos.

  • C. Bearzot, Studi su Isocrate (1980-2020), Milano 2020
  • K. Bringmann, Studien zu den politischen Ideen des Isokrates, Göttingen 1965
  • P. Cloché, Isocrate et son temps, Paris 1963
  • M. Silvestrini, Terminologia politica isocratea, II. L’Areopagitico o dell’ambiguità isocratea, QS 4.7 (1978), pp. 169-183