Xenophon, HG 4.4.6. L’unione Argo-Corinto (393 o 392-386 a.C.)

Se l’unione Argo-Corinto sia stata un sinecismo o una isopoliteia, come ritengo più probabile, rimane un problema aperto. Tuttavia, il passo di Senofonte che descrive la rivoluzione democratica a Corinto avvenuta in occasione delle Eucleie (marzo) del 393 contiene rilievi molto interessanti, nella prospettiva degli oligarchici filospartani disinteressati a un accordo con Argo, sulla percezione di una cittadinanza condivisa come fatto negativo.

Nel racconto di Senofonte (Hell. 4.4.1 ss.) l’unione Argo/Corinto è presentata come l’esito di un’imposizione da parte di un partito di minoranza, i democratici filoargivi (i cui capi erano, secondo Paus. 3.9.8, Poliante e Timolao), alla maggioranza dei beltistoi filospartani guidati da Pasimelo e Alcimene: a questi ultimi, che agiscono mossi da “un vivo desiderio di pace” (4.4.1) contro avversari corrotti, sacrileghi e disposti a far strage di concittadini «nel più totale disprezzo delle leggi anche nei luoghi sacri, al punto che fu sgomenta di fronte a una tale empietà ogni persona retta» (4.3.3: traduzione di M. Ceva), vanno con ogni evidenza le simpatie dello storico. In 4.4.6 Senofonte ci ripropone la valutazione della situazione propria dei beltistoi corinzi, che mal sopportavano l’unione con Argo:

ὁρῶντες δὲ τοὺς τυραννεύοντας, αἰσθανόμενοι δὲ ἀφανιζομένην τὴν πόλιν διὰ τὸ καὶ ὅρους ἀνασπᾶσθαι καὶ Ἄργος ἀντὶ Κορίνθου τὴν πατρίδα αὐτοῖς ὀνομάζεσθαι, καὶ πολιτείας μὲν ἀναγκαζόμενοι τῆς ἐν Ἄργει μετέχειν, ἧς οὐδὲν ἐδέοντο, ἐν δὲ τῇ πόλει μετοίκων ἔλαττον δυνάμενοι, ἐγένοντό τινες αὐτῶν οἳ ἐνόμισαν οὕτω μὲν ἀβίωτον εἶναι.

Quando videro però che il partito al potere aveva trasformato il governo in tirannide e si resero conto che si stava facendo scomparire la loro patria (aphanizomenen ten polin) abolendone i confini e chiamando ormai la città Argo invece di Corinto, e che i cittadini non solo erano costretti ad assumere la cittadinanza argiva, che non li interessava affatto, ma nella loro città contavano anche meno dei meteci, vi furono alcuni di loro che ritennero ormai impossibile vivere.

Una visione che, nel racconto senofonteo, ritorna in 4.5.1, a proposito delle Istmie del 392 (gli Argivi si comportano “come se Corinto facesse parte di Argo”); in 4.8.15 (all’epoca delle trattative del 392/1 gli Argivi temevano un accordo sulla base dell’autonomia perché “pensavano che, se si fosse stipulato un trattato del genere, non avrebbero più potuto fare di Corinto un’altra Argo”); 4,8,34 (nel 388, Ificrate è ad Atene, dove era tornato “dopo che gli Argivi avevano trasformato Corinto in Argo”). Essa sembra però smentire da quanto sappiamo sull’attività politica e diplomatica e sulla monetazione di Argo e Corinto nel periodo dell’unione.

Comunque si voglia considerare la natura (isopolitica o sinecistica) dell’unione Argo/Corinto, certo essa può essere considerata un tentativo di superare la frammentazione poleica, inaugurando nuove forme di collaborazione sovracittadina, con un esperimento che non è forse da ritenere del tutto indipendente dallo sviluppo del federalismo promosso da Tebe in funzione antispartana. A questo esperimento il partito filospartano di Corinto, sostenuto da Agesilao, guarda con molta ostilità, la medesima ostilità con cui guardano all’esperienza più propriamente federale, all’epoca dell’egemonia spartana, i partiti filospartani di altre città (per esempio, quelli di Xenia in Elide, di Cligene ad Acanto, di Leonziade a Tebe, di Stasippo a Tegea): considerando cioè ogni forma di accordo sovracittadino, per riprendere alcuni temi del celebre discorso di Cligene di Acanto (5.5.12-19), come una costrizione insopportabile a “servirsi di leggi comuni” (in questo caso, a “partecipare” di una diversa politeia) invece che delle “leggi patrie”. Il racconto senofonteo, riprendendo la prospettiva dei beltistoi corinzi, sottolinea l’incompatibilità tra la polis e l’idea della condivisione della cittadinanza, idea che sta alla base dell’isopoliteia come della sympoliteia: pur ammettendo la possibilità di partecipare alla politeia argiva, i beltistoi vi si dichiarano indifferenti, e affermano di sentirsi privati dei diritti e ridotti alla stregua di meteci; la condivisione di diritti offerta dall’isopoliteia è deformata in una forma di sinecismo forzato e di vero e proprio assoggettamento.

Diventa allora interessante, in questa prospettiva strettamente poleica, l’uso del verbo aphanizomai che emerge dal passo delle Elleniche. Esso individua infatti non una distruzione fisica di Corinto (distruzione che, comunque si intenda la natura dell’unione fra le due città, non si verificò), ma una sorta di snaturamento collegato con il venir meno della dimensione autonomistica che caratterizza la concezione tradizionale della città greca e che, in ogni forma di accordo sovracittadino, soffre di una più o meno ampia riduzione: in questo caso, la costrizione a metechein di una politeia estranea, nella prospettiva dei beltistoi corinzi, da una parte determina una illegittimità costituzionale che rivoluziona la condizione dei cittadini fino a renderne ‘invivibile’ la vita, dall’altra mina la sovranità sul territorio, rendendo la città non più padrona di se stessa, non più eph’heautes (espressione che Senofonte usa in 5.1.34 per segnalare lo scioglimento forzato dell’unione in seguito alla pace del Re e il ritorno di Corinto allo stato di polis autonoma). La deplorazione dell’aphanizesthei della città sembra inserirsi così nell’apparato ideologico “autonomista”, che rivendica le “leggi patrie” e la condizione di autopolitai contro le “leggi comuni” della opposta prospettiva isopolitica o simpolitica.

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